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I cialtroni delle classifiche

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http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2017/07/28/i-cialtroni-delle-classifiche/

Strappano periodicamente titoloni sui media, sollecitano l’istinto italico masochistico e autodenigratorio e ci fanno sensibili danni non solo economici. Stiamo parlando delle classifiche che gli enti e le società più disparate diffondono su argomenti come la facilità di fare affari nei vari paesi, la corruzione, la libertà di stampa e via dicendo. L’Italia è invariabilmente ultima più o meno in tutto tra i pesi europei, e in molti casi è superata in graduatoria anche da paesi lontani anni luce dal nostro livello di sviluppo.

Di norma i nostri media accolgono queste classifiche come se fossero oro colato, e le varie parti politiche le usano semmai per strumentalizzarle per i fini della loro propaganda. Non risulta che qualcuno ci abbia mai “guardato dentro”, chiedendo conto della metodologia usata e controllando se i dati sono stati raccolti correttamente.

Adesso finalmente qualcuno lo ha fatto, e ha trovato cose che voi umani non potete neanche immaginare. Sensazioni di campioni ristretti e non rappresentativi spacciate per dati, errori grossolani di raccolta di questi ultimi che falsano clamorosamente i risultati, scelte arbitrarie guidate da impostazioni ideologiche, insomma una montagna di errori che farebbero bocciare senza appello qualsiasi studente al primo esame di metodologia. Dobbiamo a The European House – Ambrosetti e ai dirigenti (italiani, ma con esperienze in vari paesi) di tre multinazionali – Angelo Trocchia, presidente e amministratore delegato di Unilever Italia; Leonardo Salcerini, managing director di Toyota Material Handling Italia; Matteo Marini e Mario Corsi, presidente e amministratore delegato di Abb Italia – se si può ora attribuire il giusto valore a queste classifiche: un valore prossimo allo zero.

E sì che tra i promotori di queste iniziative ci sono istituzioni teoricamente autorevolissime. La World Bank, per esempio, il cui annuale Ease of Doing Business è tra i più seguiti dalla comunità internazionale degli affari. O lo svizzero World Economic Forum, il noto istituto francese Insead, la Deloitte, uno dei giganti della revisione. Persino l’Ocse non si salva, con un incredibile errore sulla nostra spesa sanitaria. E se questa è la qualità di cui sono capaci i più noti, figuriamoci gli altri: ormai a metter fuori queste classifiche c’è la gara, i nostri di Ambrosetti & c. ne hanno esaminate ben 80.

Nonostante l’attendibilità al di sotto di ogni sospetto, però, queste classifiche sono prese in considerazione dal mondo degli affari e ne influenzano le scelte. Soprattutto, per quanto ci riguarda, contribuiscono a diffondere un’immagine dell’Italia che va dallo scarso al pessimo, il che danneggia sia la nostra economia che il nostro ruolo nella politica internazionale.

Ambrosetti e i suoi partner non si sono però limitati ad analizzare le varie classifiche. Ne hanno elaborata una di maggior rigore metodologico, il Global Attractiveness Index, che prende in considerazione 144 paesi. Il gruppo di lavoro, coordinato da Lorenzo Tavazzi, è stato coadiuvato da due advisor di prestigio, Enrico Giovannini (già alla guida delle statistiche Ocse, presidente dell’Istat, ministro) e l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli.

In questa graduatoria l’Italia risulta al 14° posto, contro, per esempio, il 45° di quella della World Bank, il 43° che ci assegna il World Economic Forum, il 28° della Deloitte sulla competitività dell’industria manifatturiera.  Troppo buoni loro o troppo cattivi gli altri? Beh, vediamolo alla luce di alcuni dati oggettivi, anch’essi ricordati nello studio: l’Italia è all’8° posto nel mondo per valore del Pil, al 4° per valore aggiunto dell’industria manifatturiera, al 9° per l’export (ma 7° per l’export manifatturiero), al 13° per stock di investimenti fissi lordi, al 3° per numero di pubblicazioni scientifiche nell’ultimo decennio (normalizzato sul numero di ricercatori per milione di abitanti), al 4° in Europa per valore della produzione in settori ad alta tecnologia.  Questi sono dati, non impressioni tratte da interviste. Quale posizionamento è più credibile?

Vediamo poi due indici “qualitativi”, anch’essi molto seguiti dai media, quello sulla “corruzione percepita” e quello sulla libertà di stampa. Prendiamo dal rapporto un estratto delle rispettive graduatorie con i commenti (in tono fin troppo diplomatico) del gruppo di lavoro.

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Ma ce n’è anche per i due indici forse più seguiti, Doing Business e Global Competitiveness Report. Il primo è costruito attraverso la somministrazione di questionari, e già sul numero delle risposte c’è qualcosa da dire: per esempio sono praticamente uguali (139 contro 130) per la Cina e per la Grecia. Per l’Italia hanno risposto più persone, 187: ma gli imprenditori sono solo il 5% di questo campione, che pesca invece per l’83% da Studi legali e uffici di consulenza. Evidentemente la World Bank ritiene che gli affari si facciano essenzialmente fra i tribunali e gli uffici del fisco. Del secondo, elaborato dal World Economic Forum, ci eravamo già occupati in passato, come pure della più folcloristica (per usare un eufemismo) di queste classifiche, quella sulla libertà economica della Heritage Foundation (che fu il serbatoio di “cervelli” dell’amministrazione Reagan).

Persino l’Ocse, come si diceva, fa uno svarione colossale. Occupandosi della nostra spesa sanitaria per la prevenzione considera solo le spese a livello nazionale, mentre è noto che la maggior parte avviene al livello regionale. Così risultiamo ultimi in Europa – con distacco – mentre in realtà siamo al secondo posto dietro la Finlandia.

Se è vero che un certo grado di discrezionalità è comunque inevitabile, lo studio di Ambrosetti, grazie anche alla consulenza di un tecnico preparato come Giovannini, evita certamente i veri e propri orrori (più che errori) delle altre classifiche. Ecco dunque l’elenco delle prime venti posizioni, che non sembra dare al nostro paese più di quanto gli spetti di diritto.

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Il rapporto fornisce anche suggerimenti che il governo – qualsiasi governo – farebbe bene a mettere in pratica, come fanno da anni tanti altri paesi. Cosa fanno? Ecco alcuni esempi.

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Ed ecco i suggerimenti del rapporto.

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Ci sembra opportuno aggiungerne un altro. La stessa strategia dovrebbe essere messa in atto nei confronti delle agenzie di rating, che classificano il debito dell’Italia al limite dell’investment grade, ossia a un passo dai titoli-spazzatura. Gli eventi degli ultimi anni hanno ampiamente dimostrato che spazzatura sono piuttosto questi giudizi, ma anche in questo caso ciò che conta è che la comunità degli investitori li prenda sul serio e che persino le istituzioni, compresa la Bce, continuino a utilizzarli. Convincerli a cambiare idea sarebbe anche più importante che guadagnare posizioni nelle classifiche sulla competitività.

Articolo di Carlo Clericetti tratto da LA REPUBBLICA del 28 luglio 2017

Brexit, ex governatore della Banca d’Inghilterra King: “Londra sia pronta a uscire dall’Ue anche senza accordo”

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Articolo tratto da IL FATTO QUOTIDIANO del 9 aprile 2017

Per l’ex banchiere centrale uscire dall’euro “è una decisione politica: dipende quanta disoccupazione la gente è disposta ad accettare e per quanto tempo. Ma se continuiamo così ci sarà presto un’altra crisi come quella del 2010 e 2011”

A 69 anni Mervyn King, che ha guidato la Banca d’Inghilterra dal 2003 al 2013, attraverso la crisi finanziaria, è libero di rimettere in discussione le fondamenta stesse dell’economia. Come nel libro La fine dell’alchimia – il futuro dell’economia globale, che esce ora in Italia per il Saggiatore.

Professor King, la premier Theresa May ha avviato l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione. Alla fine ci sarà un buon accordo per gli inglesi?
Non lo sappiamo. Il tema principale del libro è che governi e banche hanno fatto l’errore di pensare di poter predire il futuro mentre dobbiamo rassegnarci a una incertezza radicale. Nessuno, 10 anni fa, poteva immaginare che il tema della Brexit avrebbe dominato l’agenda, così come nel resto d’Europa nessuno si aspettava che la libertà di movimento delle persone sarebbe stata messa in crisi da una migrazione di massa verso l’Ue. Non sappiamo come i negoziati procederanno. Molti dei soggetti coinvolti hanno una loro agenda personale e quindi potrebbe non essere saggio presupporre che tutti, collettivamente, si comporteranno in modo razionale.

E quindi?
La Gran Bretagna deve essere pronta a uscire dall’Unione anche senza aver raggiunto alcun accordo. Ma non credo che sia un problema drammatico, potremo comunque commerciare con il resto dei Paesi dell’Ue sulla base delle regole del Wto. E nei confronti di Usa e Cina saremmo alla pari con l’Ue, visto che non esistono accordi commerciali europei con loro. Se diventa chiaro al resto dell’Europa che siamo pronti ad andarcene anche senza accordi, tutti capiranno che è interesse comune avere almeno un’intesa sul commercio di prodotti industriali.

E’ il dilemma del prigioniero: chi farà la prima mossa?
Esatto, dobbiamo prepararci a due anni di grande confusione, con politici e giornali che annunceranno spesso l’imminente collasso del negoziato. Ma su entrambi i fronti penso ci sia una certa determinazione ad avere almeno un accordo sul commercio. Ma ciascuna delle due parti deve avere ben chiaro quali sono i paletti dell’altra: la Gran Bretagna non è disposta a rendere la propria politica di immigrazione parte del negoziato, e la minaccia da parte europea di ricorsi alla Corte di Giustizia non è reale perché dopo la Brexit non avrà più autorità.

E se Londra esce senza accordo non avrà pesanti ricadute economiche, visto che da un giorno all’altro verrà disapplicata tutta la normativa di origina europea?
Dovremo fare un po’ più di formalità alla dogana, qualche modulo aggiuntivo. Ma nessun dramma. La Francia non ha alcun accordo doganale o di libero scambio con gli Usa, eppure mi sembra che riescano bene a commerciare. E all’aeroporto adatteremo le macchine per lo scan dei passaporti a leggere anche quelli europei. Fra 50 anni chi guarderà l’andamento del Pil inglese negli ultimi decenni, non sarà in grado di capire dalla curva il momento della Brexit.

Ma è stata una scelta razionale o emotiva quella degli inglesi al referendum del 23 giugno?
E’ stata la peggiore campagna politica della mia vita. Nessuno dei due campi era disposto a concedere qualcosa all’altro, ma entrambi avevano molti argomenti razionali. Il governo ha  fatto un terribile errore a esagerare le conseguenze del leave e sostenere che ogni famiglia avrebbe perso 4300 sterline. Come potevano saperlo? Nessuno era in grado di prevederlo, è un salto nell’ignoto. Non possiamo neanche sapere come sarà l’Ue tra 4-5 anni, potrebbe anche assomigliare molto al tipo di Ue che andrebbe bene agli inglesi. Ma potrebbe anche evolversi verso l’unione politica, e allora sarebbe stato razionale per la Gran Bretagna andarsene prima.

Come si spiega questo aumento di ostilità verso l’Europa da parte degli inglesi?
I politici hanno sempre sostenuto che non avremmo perso sovranità unendoci all’Ue e questo si è rivelato completamente falso. Avrebbero dovuto dire che in alcune aree condividevamo sovranità perché questo era nel nostro interesse nazionale. Negare la questione quando il 60 per cento di tutta la legislazione è europeo e quando la legge europea vale come precedente nel diritto inglese, è assurdo. La gente si chiede: se siamo la quinta economia del mondo, perché il nostro Parlamento non può fare da solo le sue leggi? Il governo ha sostenuto per anni che avrebbe controllato l’immigrazione, ma non è successo. La società è cambiata in una direzione che i politici avevano escluso, per questo le persone hanno perso fiducia.

Non crede che condividere sovranità sia talvolta il modo di preservarla? Gestire l’immigrazione da soli, per esempio, non sembra fattibile.
Quando è stata introdotta la libertà di movimento sembrava un’ottima idea. Potevi trasferirti e vivere in un altro Paese e continuare a svolgere la tua professione di dottore o di professore. Ma nessuno aveva immaginato il problema che stiamo affrontando ora: migrazioni su larga scala da Africa, Medio Oriente e Asia. L’idea originale della libertà di movimento era tra Francia e Germania e Italia o Gran Bretagna, nessuno pensava a migranti con altre lingue, culture, o al terrorismo islamico.

E’ sensato cercare di riappropriarsi della sovranità sulla moneta per i Paesi dell’Eurozona?
Sul commercio è sensato condividere la sovranità, anche se i governi non sono mai stati molto bravi a spiegarlo perché si muovevano con una logica politica e non economica. La Gran Bretagna non ha mai condiviso la logica politica dell’integrazione – “ever closer union” – ma è sempre stata consapevole dei benefici che derivano dal libero commercio, con un convergenza su standard tecnici, qualità ecc. E’ molto meno chiaro se la condivisione di sovranità può portare gli stessi benefici con una unione monetaria, che probabilmente è stata prematura. Il mio libro spiega che è stata una enorme scommessa: non c’era convergenza nelle aspettative di inflazione quando, nel 1999, si è deciso di fissare lo stesso tasso di interesse in tutti i Paesi dell’eurozona.

Con quali conseguenze?
L’aggiustamento del tasso di interesse reale, cioè tasso di interesse meno inflazione o aspettative di inflazione, è stato troppo lento in Paesi come Spagna e Italia e troppo alto in Germania o Olanda. L’economia è cresciuta troppo in Italia e Spagna, con bolle immobiliari. E i Paesi alla periferia hanno perso competitività molto in fretta ed è difficile recuperarla: l’unico modo per ridurre i salari è stato creando disoccupazione e questo è quello che è successo. La disoccupazione in Spagna è incredibilmente alta, anche in Italia è tuttora sopra il 10 per cento. Mentre in Uk o Usa dove hanno la loro moneta, è sotto il cinque per cento. La domanda è se è il costo è politicamente sostenibile.

Quindi dobbiamo rischiare l’azzardo di uscire dall’euro?
E’ una decisione politica: dipende quanta disoccupazione la gente è disposta ad accettare e per quanto tempo. Ma se continuiamo così ci sarà presto un’altra crisi come quella del 2010 e 2011. Se un Paese lascerà l’euro non sarà piacevole, ma non sarà neppure un disastro: va confrontato con l’alternativa, e se è un altro decennio di bassa crescita e alta disoccupazione… Certo, ci sarebbe un periodo di caos, almeno in apparenza, ma nel giro di un paio di anni l’economia fuori dall’euro tornerebbe a crescere rapidamente.

Che soluzioni suggerisce?
I leader dovrebbero andarsene da qualche parte per un weekend, senza giornalisti e senza comunicati, e discutere sulle quattro opzioni che hanno davanti, di cui parlo nel libro: 1) continuare così con alta disoccupazione nei Paesi periferici in eterno 2) accettare l’inflazione in Germania 3) Germania e Olanda pagano per gli altri 4) rompere l’euro. Una combinazione di queste opzioni è inevitabile, continuare come se niente fosse è impossibile.

La Bce ha tenuto insieme l’euro e il sistema finanziario, applicando ricette politiche basate sulle idee che lei nel libro mette in discussione.
Non aveva altra scelta. Dopo aver creato la moneta unica si è scoperto che la convergenza auspicata non si è mai verificata, ma non è possibile ora ricominciare da capo, aggiustando con una svalutazione una tantum i tassi di cambio tra i vari Paesi e poi tornando nell’unione monetaria. E’ una possibilità ma molto rischiosa. Ma l’unica cosa che permette ai Paesi periferici di continuare a finanziarsi è avere bassa crescita e alta disoccupazione: importante così poco che non c’è alcun deficit delle partite correnti da finanziare. Ma se questi Paesi tornassero alla piena occupazione, si troverebbero con un deficit commerciale crescente senza avere alcuna possibilità di finanziarlo perché i mercati non avrebbero alcun incentivo a finanziare chi si trova ad aver bisogno costante di prestiti perché non ha la possibilità di aggiustare il tasso di cambio per compensare lo squilibrio.

L’Italia però continua a trovare finanziamenti, con bilanci in deficit, anche se continua ad accumulare debito.
Questo succede perché i mercati sanno che non stanno finanziando davvero voi, ma la Germania, la Bce e tutta l’Unione monetaria. E questo è un problema: c’è un’incoerenza tra questo tipo di aspettative e quelle dominanti in Germania.

Il tasso di interesse reale per i tedeschi è troppo basso e questo gonfia la loro competitività, generando enormi surplus commerciali. Ma avranno uno shock quando dovranno prendere atto che nessuno può ripagare loro i soldi investiti all’estero. Non riavranno mai i loro soldi e a un certo punto dovranno svalutare questo “attivo”. Prima o poi capiranno che non sono così ricchi come credono e che non hanno grandi vantaggi da essere così competitivi. E a un certo punto il tasso di interesse reale dovrà salire, o perché escono dall’euro, o perché arriva l’inflazione in Germania, o perché un altro Paese diventa più competitivo. Nel lungo periodo, la loro posizione è insostenibile.

La Finlandia Taglia Paghe e Giorni Festivi

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Detto, fatto: non potendo svalutare la moneta si svaluta il lavoro. Era stato tutto annunciato alcuni giorni fa (ma noto da tempo) e ora BloombergFinancial Times elencano i primi provvedimenti che il governo di Helsinki sta mettendo in campo per “riguadagnare competitività”. Lavorare di più ed essere pagati di meno: ecco la ricetta prescritta ai finlandesi, ed ecco la funzione anti-sindacale e di repressione del lavoro svolta dall’euro… <<<leggi>>>

La Finlandia Taglia Paghe e Giorni Festivi