2. Se si ammala dopo la seconda, “è perché che non sono trascorsi 21 giorni”.
3. Se si ammala dopo 21 giorni, “il vaccino serve a non finire in rianimazione”.
4. Se finisce in rianimazione, “Il vaccino serve a non farlo morire”
5. Se muore, “nessun vaccino è sicuro al 100%, è colpa dei no-vax che non vogliono vaccinarsi”.
*** tratto dal blog di Aldo Maria Valli del 13 agosto 2021
Caro Valli, mi spiace non firmarmi col mio nome, ma sono costretto a inviare questo intervento coperto da anonimato a causa del clima attualmente vigente. Sono docente di fisica in una importante università italiana, ma non mi posso esporre. Chi oggi pone domande in materia di vaccini anti-Covid viene etichettato con la sbrigativa etichetta “no-vax” e subisce un ostracismo che, di fatto, diventa mobbing, additato come un soggetto sospetto e tenuto sotto osservazione. Da questo punto di vista, ritengo che lo stato attuale delle università non sia molto dissimile da quello dell’epoca fascista, al tempo del famigerato giuramento, in cui chiunque avanzasse dubbi non solo era perseguitato materialmente, ma subiva una morte civile.
Vorrei qui fare un richiamo a ciò che esercito quotidianamente nel mio lavoro, ossia alla razionalità. Razionalità sulla questione dei vaccini Covid, quella razionalità che proprio la maggioranza dei miei colleghi, in primis, abbandona integralmente quando si prova ad affrontare l’argomento. Io qui parlo da scienziato, uno scienziato che non è medico, ma che valuta i dati che abbiamo a disposizione, posto che siano scientificamente attendibili. I perché di questi dati, i perché dei vari meccanismi fisiologici, io non li so, li sanno i medici, i biologi, i farmacologi. Io qui valuto ciò che sappiamo e ciò che facciamo nelle sue basi scientifiche; i dettagli medici li lascio ai medici.
Conosco tanta gente che arrivata a questo punto mi etichetterebbe già come “no-vax”. La pratica di categorizzare le persone con una parola è tipica della moderna vita sociale, dagli episodi più drammatici, quando l’essere chiamato “nemico del popolo” ti faceva finire nelle grinfie del Kgb, a quando negli anni di piombo chi a sinistra non era comunista veniva additato come uno sporco-socialdemocratico-riformista. No, io rifiuto di essere accostato a chi ritiene che la terra sia piatta, a chi pensa di curare il cancro con la meditazione yoga o a chi ritiene che i vaccini siano somministrati per trasformarci in “rettiliani”!
Io rivendico il mio diritto a fare analisi, porre domande, abbozzare ragionevoli ipotesi, dedurre conseguenze. In una parola, rivendico il diritto pubblico di usare la razionalità!
Primo punto – Somministrare il vaccino Covid è compiere un atto medico, il che, come per tutti gli atti medici, porta sia benefici sia controindicazioni. Esso deve essere quindi un atto serio, razionalmente e scientificamente ponderato. Pertanto, proclami politici, toni da festa popolare o atteggiamenti superficiali (fotografie, hashtag, “birra & vaccino”,”vaccino & gelato”, eccetera) vanno del tutto evitati, ché interferiscono con il suddetto approccio razionale, oltre a essere fuori luogo e irrispettosi per la gravità del momento. Si converrà con me che tutto sono fuorché razionali le metafore belliche e i quotidiani insulti che vengono rivolti a tutti coloro che hanno dubbi sulla campagna vaccinale contro il Covid, così come è lontano da un clima di analisi razionale l’alimentare una guerra civile fredda tra vaccinati e non vaccinati. Ciò premesso, ci sono pro e contro da valutare (ripeto, come in tutti gli atti medici).
Appellandomi alla suddetta razionalità, risulta altresì inaccettabile che in qualunque discussione a tema Covid mentre si sta argomentando e sviluppando dei ragionamenti a un certo punto arrivi un sanitario (medico, infermiere, eccetera) che cala la matta: “Zitti, venite in ospedale a vedere chi sta male!” A quel punto basta, qualunque ragionamento è troncato, non si può più dire niente… Buttare sul tavolo la matta è come quando in un dibattito qualcuno che non sa cosa dire ti dà del fascista (la reductio ad Hitlerum): tu hai finito e lui ha vinto. Ringrazio tutti i sanitari che si sono spesi e si spendono per i malati, ma rivendico nuovamente il diritto a usare la razionalità e non l’emotività: se un chirurgo usasse solo l’emotività si guarderebbe bene dall’affondare il bisturi nelle carni del paziente; è il suo giudizio razionale che gli permette di procedere e di estirpare il male!
Secondo punto – PRO. Sì, i vaccini anti Covid attualmente disponibili sono efficaci nel contrastare l’epidemia, nel diminuire fortemente la probabilità di infettarsi, di ammalarsi gravemente, di morire. I dati di cui oggi siamo in possesso ci mostrano questo chiaramente e chi dicesse il contrario o mi mostra dove questi dati sbagliano o sta solo chiacchierando. Attenzione però: ho detto “sono efficaci nel contrastare”, non nel “debellare”, perché purtroppo ci si può infettare anche da vaccinati, ci si può ammalare anche da vaccinati e si può addirittura arrivare a morire, sebbene sia meno probabile. Ѐ altresì evidente che sulla consistenza numerica di questa azione positiva, che a tutt’oggi è chiara, ci sono tuttavia alcuni legittimi dubbi. Si può inoltre considerare ormai acclarato che un vaccinato possa essere contagioso, probabilmente tanto quanto un non vaccinato: circa tale caratteristica non ho personalmente visto dati definitivi, ma ritengo di potermi fidare del parere di autorevoli esperti quali Anthony Fauci (principale immunologo Usa) e Antonio Magi (presidente dell’Ordine dei medici di Roma), che tutto sono fuorché contrari ai vaccini anti covid.
Terzo punto – CONTRO. Dubbi sui vaccini anti Covid, purtroppo, ce ne sono diversi. Innanzitutto, essi sono stati approntati in fretta sotto forti pressioni politiche e autorizzati come terapie sperimentali. Ho sentito ripetere che “la scienza dice che sono sicuri”. Sì, i dati che abbiamo lo dicono, ma sono ancora dati dichiaratamente provvisori. L’autorizzazione dell’Agenzia europea del farmaco prevede espressamente che le case farmaceutiche sottomettano una relazione su benefici ed effetti collaterali entro il dicembre 2023, relazione che tale Agenzia studierà e comparerà con i dati in suo possesso per valutare l’autorizzazione definitiva. Perciò, ragionevolmente, non avremo certezze dichiarate e certificate prima del 2024 inoltrato. Occorre altresì notare che questi sieri sono stati approntati usando tecnologie altamente innovative, di cui, come dichiarato dagli stessi produttori, nulla sappiamo circa gli effetti a lungo termine. Nel loro recente intervento, Massimo Cacciari e Giorgio Agamben hanno sottolineato che gli stessi produttori dei vaccini hanno dichiarato che non sanno se negli anni potranno emergere patologie circolatorie o addirittura oncologiche.
Quarto punto – NON PREVEDIBILITÀ intrinseca. Mi sono sentito dire tante volte: “Ma abbiamo una statistica su un numero enorme di casi, praticamente non ci sono stati effetti collaterali, quindi siamo assolutamente sicuri”. Queste affermazioni me le hanno fatte anche persone con un’ottima cultura scientifica. Certo, su questi nuovi vaccini abbiamo una statistica su un numero enorme di casi e gli effetti avversi riscontrati, per quanto in alcuni casi drammatici, sono stati finora statisticamente non rilevanti; almeno questo è ciò che finora ci dicono i dati consolidati, che permangono in fase di continuo aggiornamento. Tuttavia, qui si tratta di statistica dei sistemi, e questo è campo mio, non dei medici, e qui posso dire più di loro. Tecnicamente ciascun essere vivente è quello che nella fisica moderna è chiamato “sistema complesso”. A chi fosse interessato ad approfondire l’argomento suggerisco il saggio Il quark e il giaguaro del premio Nobel Murray Gell-Mann (ma potete cominciare con la voce di Wikipedia). Detto molto rozzamente, un sistema complesso è un sistema fisico in cui “il tutto è più della somma delle parti”, ossia un sistema che, smontato nei suoi costituenti fondamentali, perde le sue caratteristiche specifiche. Evidentemente qualunque vivente è un sistema complesso, poiché se lo smonto lo uccido e cessa di essere un vivente. Sistema complesso è anche, per esempio, l’atmosfera terrestre, il cui comportamento non può essere riconducibile a quello della miscela di gas che la compongono. Peculiarità di tali sistemi complessi è proprio che essi hanno una evoluzione temporale in larga misura imprevedibile. L’esempio delle previsioni del tempo è noto a tutti: oltre le quarantotto ore la loro affidabilità crolla. Questo è un problema intrinsecamente legato alla natura di “sistema complesso” dell’atmosfera terrestre. Più in generale, nei cosiddetti “sistemi complessi”, quali sono gli esseri viventi, la statistica sul numero di casi non ci dice niente sulla statistica nel tempo: tecnicamente si dice che che non vale né “l’ipotesi ergodica” né “la dipendenza continua dai dati iniziali”. Quindi, sì, posso affermare che sugli effetti di questi nuovi vaccini siamo ciechi su quanto potrebbe accadere ai vaccinati tra cinque o dieci anni. Potrebbe non accadere nulla, così come potrebbe esserci, Dio non voglia, un incremento di trombosi o di tumori, moderato o largo. Le stesse case farmaceutiche mettono le mani avanti dicendo che non lo sanno. Di certo posso affermare che se l’ultima delle matricole venisse a dirmi “professore, abbiamo avuto lo stesso risultato in un milione di casi, quindi questo dimostra che otterrò lo stesso risultato tra un milione di secondi” la caccerei lanciandole dietro la tessera dello studente (purtroppo il libretto cartaceo non si usa più)! Perciò non me lo vengano a dire né medici né colleghi (ideologici o poco aggiornati) né giornalisti! Ripeto: sugli effetti a lungo termine non abbiamo certezze, e non per mancanza di dati, non per ricerche fatte male, non per analisi sbagliate, ma per una caratteristica intrinseca della natura (per come la conosciamo oggi), paragonabile alle leggi della termodinamica. Non si scappa, sugli effetti a lungo termine SIAMO CIECHI.
Quinto punto – CONSIDERAZIONI SCIENTIFICHE. Allora, dobbiamo rinunciare a questi vaccini? A mio parere no, perché ne perderemmo anche i vantaggi. Risulta tuttavia ragionevole applicare un principio di prudenza. I vaccini non possono essere il solo strumento contro il Covid, ma uno strumento, da usare con gli altri. Essi vanno applicati, sì, ma valutando il rapporto rischi-benefici. Esempi pratici. Gli ultraottantenni sono vulnerabili al Covid oggi e delle complicazioni a dieci anni a loro interessa molto relativamente; per cui è ragionevole vaccinarli. I bambini, di contro, sono poco vulnerabili al Covid e complicazioni a dieci anni possono rovinare o terminare la loro vita; pertanto, non è ragionevole vaccinarli! Affermazioni a favore della vaccinazione dei bambini, anche fatte da personaggi titolati quali, per esempio, il ministro dell’Università, denotano solo ideologia e ignoranza. In mezzo, tra questi due esempi estremi, ci sono i milioni di casi da valutare a uno a uno in relazione alla situazione singola. Bisognerebbe applicare razionalità e discernimento caso per caso, sapendo che, oggettivamente, ogni soluzione comporterà dei rischi: ma la medicina non dovrebbe fare così quotidianamente? Ci sono ragionevoli dubbi a non vaccinarsi, ci sono ragionevoli dubbi a vaccinarsi. Che cosa dicevano gli antichi? In dubiis, libertas. In ciò erano certamente più saggi e razionali di noi.
Sesto punto – CONSIDERAZIONI GENERALI. Ci sarebbero altre questioni di cui tenere conto, ma rientrano in campi non scientifici: in proposito ho la mia opinione, ma non è più titolata di quella di altri. È, tuttavia, importante che rammenti gli elementi in gioco. Ci sono innanzitutto questioni etiche su come i vaccini sono stati approntati. Alcuni (Pfizer, Moderna) hanno impiegato in fase di sperimentazione colture cellulari provenienti dalle cellule di un bambino abortito, probabilmente (ma non certamente) per aborto spontaneo. Altri (Astrazeneca) cellule analoghe le hanno usate anche in fase di produzione. Ѐ eticamente lecito ciò? L’etica classica, di cui la Chiesa cattolica si fa interprete modernamente, dice che lo è in condizioni di emergenza, in mancanza di alternative. Lo siamo effettivamente? Di nuovo, occorre affrontare la complessità della situazione e valutare attentamente. Dubbi oggettivi ce ne sono.
Altre questioni riguardano le correlazioni, anche economiche, tra gli Stati e le grandi case farmaceutiche, per cui certe strategie di cura più innovative e costose, quali i vaccini, sono state privilegiate rispetto ad altri approcci più consolidati ed economici, quali i protocolli di cura (anche domiciliare), che stanno per essere approvati a livello continentale. Perché questa scelta? Ancora non c’è chiarezza, di nuovo ci sono dubbi.
La classe medica, infine, risente fortemente di questo clima di guerra civile fredda, per cui l’ordine non scritto di “bucare tutti a tutti i costi” porta i medici a non avere la giusta serenità per valutare tutti i possibili casi, i possibili quadri clinici, le possibili controindicazioni o la portata dei benefici per ciascuno, con buona pace dell’etica della medicina, della scienza della razionalità!
Settimo punto – CONCLUSIONI. Contrariamente a quanto ci dicono, è del tutto FALSO che esista una sola soluzione che va bene per tutti. Perché è certamente vero che dobbiamo evitare che la gente muoia soffocata nelle terapie intensive, ma dobbiamo anche evitare il rischio che, se qualcosa andasse storto, la popolazione di domani sviluppi in massa patologie altrettanto gravi!
È ragionevole pensare che un evento così enorme e complesso come questa epidemia Covid possa avere una soluzione unica? È ragionevole puntare tutto su un’unica strategia, per di più scarsamente collaudata? Non sarebbe più ragionevole affrontare la complessità della situazione approntando varie strategie per i vari contesti, con piani secondari nel caso le prime scelte si rivelassero inefficaci?
Un po’ di esperienza e pratica scientifica da parte di tutti permetterebbe di agire e giudicare con razionalità e non in preda all’emotività. Io rivendico RAZIONALITÀ E PRUDENZA.
Sono uno scienziato, rivendico il diritto, senza essere additato, vilipeso, punito, allontanato, di porre domande, di analizzare, di dubitare, di invocare razionalità e prudenza e rivendico la libertà di mettere in pratica pubblicamente tutto ciò! È così assurdo?
]]>B) le previsioni di sciagura si sono sempre rivelate sciocchezze. Vi ricordate cosa dicevano i consulenti di Speranza quando ad Aprile insistevamo per riaprire? Ecco. Adesso siamo a metà Luglio. Di che parliamo?
C) la popolazione a rischio è già totalmente vaccinata. perché il covid è pericoloso soprattutto per gli over 60 e ai dati dei vaccinati VANNO AGGIUNTI i milioni che l’hanno avuto e sono guariti. Ufficiali sono 4,2 milioni reali, probabilmente il doppio. Da 60 a 90+ siamo vicini al 100%.
D) la mortalità covid per i giovani UNDER 40 è ZERO. I pochissimi morti che ci sono stati erano nella stragrande maggioranza dei casi con gravi patologie.
E) a fronte di rischio zero per i giovani le reazioni avverse colpiscono sopratutto loro. Per quale motivo dobbiamo metterli a rischio? Giù le mani dai ragazzi!!! In Germania le vaccinazioni ai giovani sono sconsigliate (e niente greenpass). Facciamo come loro.
F) dire che se ci sono più vaccinati il virus circola di meno è una sciocchezza. Il massimo dei contagi in Europa è proprio nel paese dove si è vaccinato di più ovvero la Gran Bretagna. Il vaccino protegge i fragili, non fa miracoli.
G) dire che se non ci vacciniamo tutti si creano le varianti è una sciocchezza. Supponiamo che perché siamo campioni d’Europa arriviamo al 100%. Ma non ci pensate che fuori c’è un MONDO di 7,8 MILIARDI di persone? La variante delta è la variante INDIANA, non di Frosinone.
H) i giovani non avranno mai il greenpass prima di Ottobre. Se anche tutti i giovani (secondo me sbagliando ma liberi di fare quello che vogliono) corressero a prenotarsi non avrebbero mai la seconda dose prima di ottobre. Li vogliamo chiudere in casa tutta l’estate?
I) dove si è sperimentato il greenpass ci sono stati migliaia di contagi. Ovvio. Il vaccinato può contagiare, se va in un assembramento contagerà tutti. Se si vuol essere sicuri in una situazione rischiosa si fa il tampone rapido all’ingresso, altrimenti non c’è alcuna garanzia.
L) il regolamento UE sul greenpass vieta discriminazioni. E’ così anche la risoluzione del Consiglio d’Europa sulle vaccinazioni. Chi vuol mettere l’obbligo abbia il coraggio di proporlo pubblicamente. Greenpass è un obbligo camuffato, un attentato alle libertà fondamentali. NO GREENPASS.
Thread di Claudio Borgli Aquilini pubblicato su Twitter il 17/07/2021
]]>Siamo “in emergenza”, torna ad avvertire Guido Carli. Bisogna colpire pensioni e salari, ma occorre anche puntare alla “crescita zero” del numero dei dipendenti pubblici. E privatizzare. E sfruttare la “disponibilità a pagare” di una parte degli utenti nei delicatissimi settori della sanità e dell’ istruzione. Quindi va riformato l’ ordinamento finanziario degli enti locali. E, ancora, vanno revisionate le procedure di bilancio… Insomma, rigore. Che poi vuol dire stringere (subito) la cinghia. Altrimenti l’ Italia può abbandonare il sogno europeo perché già oggi la dinamica della spesa pubblica “non é tale da consentire” la convergenza richiesta dagli accordi di Maastricht. Emergenza… E così, mentre la Confindustria lancia la sua maxi-proposta sul costo del lavoro e ancora risuona il monito del governatore Ciampi, anche il Tesoro rilancia, in sintonia con la Banca d’ Italia, l’ allarme spesa pubblica. Lo fa in un volume, un “libro verde”, redatto dalla competente commissione, presieduta da Piero Giarda. 320 pagine che contengono un’ analisi impietosa dei mali nazionali. E anche tante, tantissime cifre che, sebbene non nuove, fanno impressione messe lì, tutte in fila. Per esempio: dal 1987 al 1991 la crescita della pressione tributaria e contributiva, pari a 4,2 punti del pil, é servita a pagare il costo crescente degli interessi (più 2,3 punti), quello della spesa al netto degli interessi (più 1,2 punti) e “solo marginalmente” é andata a ridurre la quota del fabbisogno sul pil (meno 0,7 punti). E ancora: negli ultimi quattro anni, sempre, la spesa pubblica é stata superiore a quella programmata. E le manovre correttive attuate sono state inferiori a quelle annunciate… “Errori di uomini o crisi del sistema?”, si domanda il ministro del Tesoro uscente, nella prefazione. La causa del dissesto – scrive – é imputabile “all’ estensione assunta dal principio della gratuità delle prestazioni pubbliche rese al cittadino”. Ma ombre pesanti gravano anche sul parlamento, “dove si fanno, si emendano, si rifanno le leggi”. Occorre quindi costituire un governo “composto da ministri che, nella loro collegialità, condividano la convinzione che siamo in emergenza, che urgono provvedimenti d’ emergenza e ripudino la filosofia di populismo egualitario nella quale, durante due decenni, si sono riconosciute le forze presenti in parlamento”. Le pensioni sono in cima alla lista delle urgenze. In sintesi: per i nuovi assunti, l’ età del pensionamento per vecchiaia deve salire a 65 anni. Per la pensione di sanità devono esserci 40 anni di contributi. La percentuale di commisurazione deve scendere dall’ 80 al 50-70 per cento; il calcolo della base pensionabile deve passare dagli attuali 5 anni all’ intera vita contributiva. La riforma – scrive il Tesoro – riguarderà tutti i lavoratori e andrà successivamente armonizzata col vecchio regime. E ancora: le retribuzioni pubbliche. Si raccomanda “una chiarezza rigorosa” della trattativa per la definizione del rinnovo contrattuale 1991-1993. L’ obiettivo, come hanno già avvertito la Banca d’ Italia e la Confindustria, deve essere quello di contenere le retribuzioni entro il tasso programmato d’ inflazione. Ma bisogna anche bloccare il turn over, mantenendo invariato il numero dei dipendenti pubblici e indirizzando le nuove assunzioni solo “verso quei settori ove ciò é richiesto dallo sviluppo della domanda”. Un dato: nel prossimo triennio, tra cessazioni dal servizio, collocamento a riposo, uscite volontarie e mortalità, ci saranno 200 mila dipendenti in meno. Il Tesoro rinnova l’ appello a privatizzare: “le ragioni e i vincoli di finanza pubblica giustificano una aggressiva politica di reimmissione sul mercato delle aziende pubbliche, specie quelle che si trovano in situazione di profittabilità ed efficienza”. Ed elabora 5 regole da suggerire all’ Iri per le telecomunicazioni, all’ Eni per il settore del gas, all’ Enel per l’ energia elettrica. Misure urgenti, ma anche tagli. Tra questi l’ intervento pubblico di sostegno all’ attività produttiva che va contenuto “fino a sparire”. I denari risparmiati potranno essere proficuamente spesi in settori come la giustizia, la tutela ambientale (un evergreen n.d.r), il riassetto delle aree urbane “in cui la domanda collettiva é divenuta più pressante”. Inoltre, sulla finanza locale: bisogna ampliare le fonti di entrata regionale basandosi su sovraimposte e addizionali ai tributi erariali. Nell’ istruzione e nella sanità: bisognerà superare “la filosofia ancora radicata della gratuità diffusa”. Il “dissesto della finanza pubblica”: così lo chiama Guido Carli. E avverte: l’ architettura del risanamento, per essere efficace, ha bisogno di solide basi. Perciò le procedure e i vincoli sulla formazione e la gestione del bilancio vanno resi “più stringenti”.
Argomento ad hominem. Quando si attacca la persona e non l’idea di cui è portatore.
“L’ha detto Giulio? Ma quello è un cretino!” Sarà anche cretino, ma è la sua idea che va confutata, indipendentemente dalla persona.
Questo può valere anche per la “fonte” in senso lato: “Ho letto su un sito internet che l’11 Settembre non fu affatto portato a termine da 19 arabi…” “Ma và là, lascia perdere. In Internet girano tante di quelle stronzate!”
Ne girano a quintali, se è solo per quello, ma sono le idee specifiche che vanno confutate, non il luogo (comune) da cui provengono.
Argomento ad ignorantiam. Un cosa è vera (o falsa) solo perchè non è mai stato dimostrato il contrario.
Atlantide è esistita: dimostrami che non è vero.
Dio non esiste: dimostrami che c’è.
Falso dilemma. Un esempio classico è quello dell’interminabile dibattito fra creazionismo ed evoluzionismo, dove la fallacia viene curiosamente adottata da ambo le parti senza ormai più nessun ritegno.
Da una parte si dice: “L’evoluzionismo non dà conto del passaggio dalla scimmia all’uomo (anello mancante), quindi ha ragione il creazionismo”. Dall’altra si risponde: “Siccome il mondo non può avere seimila anni, come vorrebbe la Bibbia, è l’evoluzionismo la teoria giusta”.
Questa fallacia presuppone che non vi siano alternative alle due tesi concorrenti, quando in realtà non è possibile affermarlo. Ben diverso sarebbe sostenere che un uomo “è morto, poichè non è più vivo”, o viceversa, quando le alternative siano effettivamente solo due.
La fallacia del falso dilemma è molto più diffusa di quello che si creda, perchè si nasconde spesso in proposizioni che a prima vista suonano perfettamente coerenti. Consideriamo le risposte a queste due affermazioni:
A – Credo che il capitalismo abbia assunto nella nostra società una forma disumana”
R – “E allora cosa dovremmo dire dei morti fatti dal comunismo?”
A – “La democrazia moderna ha fallito il suo compito”
R – “Ma sì, torniamo pure alle dittature che torturano la povera gente”
Ambedue le risposte presuppongono che vi siano solo due alternative al problema, il che in ciascun caso non è assolutamente vero.
La domanda “pesante”. Si pone quando viene implicata una premessa che non è necessariamente vera.
Hèi, come stai? Hai smesso finalmente di picchiare tua moglie? (Dove sta scritto che io abbia mai iniziato, scusa?)
Petitio principi: quando si inserisce la conclusione nella premessa, in modo da poterla dimostrare con maggiore facilità. (Equivale al cosiddetto “giro vizioso”).
“La Bibbia è parola divina.” “Come fai a dirlo?” “Lo dice la Bibbia stessa!” (Episodio vero, capitatomi con un Testimone di Geova).
Ma vi sono anche forme molto più subdole, e meno facili da individuare: “Non è possibile che Kennedy sia stato ucciso da una cospirazione, poichè ci sono quintali di prove che dimostrano che Oswald agì da solo”.
Si dimentica in questo caso che tali prove sono state raccolte, gestite e fornite al pubblico dalle stesse autorità che, nel caso del complotto, avrebbero avuto tutto l’interesse a falsificarle.
Uomo di paglia. Avviene quando si attacca un’argomentazione che l’avversario ha fatto in separata sede, e che risulta particolarmente facile da confutare, nell’intento si sminuire la validita della sua argomentazione corrente.
Io e te siamo discutendo di coltivazione delle banane. Ad un certo punto tu mi dici: “Tu hai scritto l’anno scorso che i mandarini non crescono bene in Sicilia, mentre questo non è vero”, sottintendendo che la mia argomentazione sulle banane sia meno valida. (Si chiama “uomo di paglia” perchè è più facile da sconfiggere di un uomo in carne ed ossa).
Impone inoltre l’idea che se si sta davvero cercando di conoscere la verità conviene prendere in considerazione la tesi contraria più forte, e non la più debole.
Argomento ad autoritatem (diffusissimo di questi tempi): Chi sostiene una certa tesi è un luminare nel campo, quindi ha ragione.
Questo non è necessariamente vero, anche se per questo non dobbiamo rigettare per principio qualunque cosa esca dalla bocca di un esperto di settore. Un utile criterio discriminante può essere l’eventuale “interesse aggiuntivo” legato alla sua affermazione: se Einstein sostiene una certa caratteristica dell’Universo, non avendo apparentemente nulla di aggiuntivo da guadagnare (oltre al piacere di avere ragione), forse ci si può anche fidare. Ma se un noto architetto sostiene che le Torri Gemelle sono cadute per conto loro – essendo la cosa particolarmente controversa – non solo è igienico dubitarne, ma si può in certi casi addirittura sospettare che il luminare sia stato interpellato proprio per supportare una bugia (in cambio di una lauta ricompensa, ovviamente). Il caso dell’Universtità Purdue – per chi conosce bene la questione 11 Settembre – è particolarmente indicativo. E comunque in generale, il mondo è pieno di “esperti a gettone”, il cui numero sembra aumentare proprio con il calo di attenzione critica con cui assorbiamo quotidianamente le informazioni dai media ufficiali.
Fallacia del piano inclinato (o piano scivoloso), dove si prospettano conseguenze catastrofiche ad un certa tesi, nell’intento di invalidarla.
All’ipotetica proposta: “Se gli immigrati illegali avessero la patente potrebbero lavorare molto di più”, qualcuno potrebbe replicare: “Già bravo, cominciamo col dargli la patente e va a finire che fra qualche anno ce li ritroviamo al governo”.
A parte che non è affatto garantito che ciò accadrebbe, la tesi non può comunque restare invalidata da qualcosa che le è esterno. Ovvero, qualunque cosa possa succedere per aver dato la patente agli immigrati, non cambia il fatto che questi sarebbero più produttivi se l’avessero.
Fallacia di composizione: avviene quando si attribuisce al tutto la qualità di una parte.
Gli appartamenti di quell’edificio sono molto piccoli. Quell’edificio ha tanti appartamenti. Quell’edificio è piccolo.
Il suo opposto è la
Fallacia di sottrazione, che avviene quando invece si attribuisce alla parte una qualità del tutto.
Gli aborigeni si stanno estinguendo. Arrawang è un aborigeno. Arrawang si sta estinguendo.
Negazione dell’antecedente, quando si fa risalire un evento ad una causa non necessariamente correlata.
Mio cugino ha urlato. Subito dopo è crollato il Muro di Berlino. Mio cugino ha fatto crollare il Muro di Berlino.
Il suo contrario è la
Affermazione del conseguente. Fallacia che avviene quando si presume un effetto da una causa non necessariamente correlata.
Quando l’Inter vinse il campionato pioveva. Oggi piove. Oggi l’Inter vince il campionato. (Magari)
Queste sono le fallacie più diffuse, che è utile conoscere per districarsi in eventuali situazioni di stallo durante una discussione. Ve n’è poi almeno un’altra dozzina, che sono però molto meno insidiose, e molto più facili da individuare. Per il nostro scopo quelle presentate dovrebbero essere più che sufficienti.
Massimo Mazzucco
Ancora oggi la distanza economica e sociale tra le due parti della Germania non accenna a diminuire, nonostante massicci trasferimenti di denaro pubblico dalle casse del governo federale tedesco e da quelle dell’Unione Europea. Sulla base di una ricerca scrupolosa, condotta attraverso i dati ufficiali e le testimonianze dei protagonisti, Vladimiro Giacché mostra come la riunificazione delle due Germanie abbia significato la quasi completa deindustrializzazione dell’ex Germania Est, la perdita di milioni di posti di lavoro e un’emigrazione di massa verso Ovest che perdura tuttora, spopolando intere città.
La storia di questa “unione che divide” è una storia che parla direttamente al nostro presente. Essa comincia infatti con la decisione di attuare subito l’unione monetaria tra le due Germanie, prima di aver attuato la necessaria convergenza tra le economie dell’Ovest e dell’Est. L’unione monetaria ha accelerato i tempi dell’unione politica, ma al prezzo del collasso economico dell’ex Germania Est. Allo stesso modo la moneta unica europea, introdotta in assenza di una sufficiente convergenza tra le economie e di una politica economica comune, è tutt’altro che estranea alla crisi che sta investendo i paesi cosiddetti “periferici” dell’Unione Europea. Il libro di Giacché si conclude quindi con un esame approfondito delle lezioni che l’Europa di oggi può trarre dalle vicende tedesche degli anni Novanta.
Alcuni estratti dal libro “Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa” (versione 2013 del libro) nel link immediatamente sotto:
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Pubblichiamo un testo di Vladimiro Giacchè nel quale è ricostruita la vicenda storica dell’Italia nell’euro, il passaggio di fase in corso, l’interpretazione del Governo Conte 2 e la sua valutazione critica sulla scelta di Patria e Costituzione di provare a giocare la partita nella maggioranza M5S-Pd-Renzi-LeU. Buona lettura.
Il secondo governo Conte e la sinistra Friedrich Nietzsche diceva che bisogna avere “il coraggio di ciò che si sa”.
1. Quello che sappiamo
Proviamo a mettere assieme quello che sappiamo sulla traiettoria economica dell’Italia negli ultimi decenni, su quanto è accaduto dall’introduzione dell’euro, prima e dopo la crisi e su quanto è accaduto dopo il 4 marzo 2018. Ci aiuterà a capire cosa fare.
1.1. La traiettoria economica dell’Italia negli ultimi decenni è la storia di un successo catastrofico
A differenza di quanto vuole una vulgata diffusa quanto falsa, questo paese negli scorsi decenni ha fatto diligentemente i compiti che gli sono stati assegnati. Ha eliminato la scala mobile (1993), ha eliminato l’economia mista (accordo Andreatta-Van Miert e poi privatizzazioni di Draghi), ha ridotto il debito dal 117% del 1994 al 100% del 2007.
Usando la crisi come spartiacque, possiamo distinguere due periodi, con l’aiuto di un recente paper dell’economista olandese Servaas Storm.
Dal 1995 al 2008 abbiamo realizzato un avanzo primario del 3% annuo (principalmente riducendo le spese sociali): nessuno è stato così bravo in Eurozona (la virtuosa Germania nello stesso periodo può vantare un avanzo di appena lo 0,7%, mentre la Francia evidenzia un disavanzo dello 0,1%). Questo sforzo in teoria sarebbe stato sufficiente per ridurre il debito dal 117% del 1994 a uno strabiliante 77% del 2008. Purtroppo però questo contenimento della spesa pubblica ha ridotto la crescita e questo ha all’incirca dimezzato la riduzione effettiva (in quanto il rapporto debito/pil è stato mantenuto più elevato dalla conseguente minore entità del prodotto interno lordo).
Dal 2008 al 2018, poi, l’Italia è stata protagonista di un consolidamento fiscale eccezionale. Lo possiamo vedere in questo grafico, tratto dalla ricerca di Storm.
Il consolidamento (restrizione) fiscale italiano ammonta a ben -227 miliardi di euro, a fronte di politiche espansive del valore di +461 miliardi da parte della Francia e di un dato complessivamente neutro per i paesi “Euro-4” (Belgio, Francia, Germania e Olanda). Secondo stime dello stesso Tesoro italiano, questo consolidamento, nei soli anni tra il 2012 e 2015, ha ridotto il prodotto interno lordo del 5% e gli investimenti del 10%.
Tirando le somme, i surplus primari realizzati dall’Italia tra il 1992 e il 2018 hanno sottratto domanda per 1 trilione di euro cumulato. Nel periodo la spesa pubblica non ha conosciuto alcun aumento, mentre gli investimenti sono diminuiti in ragione dello 0,5% annuo. Il disavanzo primario pubblico francese nel periodo ammonta a 475 miliardi, mentre il consolidamento realizzato complessivamente da Germania, Belgio e Olanda ammonta a circa la metà (-510 miliardi) di quello della sola Italia.
Ma siamo stati bravi anche su altri fronti. Ad esempio, abbiamo flessibilizzato il lavoro e contenuto più degli altri i salari (con l’eccezione della sola Germania nel periodo 2005-2010).
I salari sono aumentati di appena il 6% dal 1992 al 2018. Abbiamo così ridotto l’inflazione, aumentato la quota del prodotto interno lordo che va ai profitti, aumentato l’intensità di lavoro, e anche ridotto la disoccupazione sino allo scoppio della crisi, come si vede nel grafico che segue.
Ma al tempo stesso abbiamo ridotto la produttività del lavoro, ridotto l’incentivo a investimenti produttivi e ridotto la domanda aggregata; questo sia a causa sia del calo della quota salari, sia a causa delle misure di austerità.
La crescita cumulata della domanda interna nell’intero periodo tra 1992 e 2018 è risultata inferiore al 7%. Nello stesso periodo essa è cresciuta del 33% in Francia e del 29% in Germania. In tal modo è stato colpito anche il saggio di profitto, che come determinante di nuovi investimenti è più importante della quota parte dei profitti sul pil.
Infine, il dato forse più significativo, che riguarda il calo dei redditi nel periodo considerato. Se nel 1991 il reddito netto medio in Italia era pari a 27.499 euro (a prezzi costanti del 2010), nel 2016 era sceso a 23.277 euro: un 15% in meno.
La conclusione di Storm in relazione alla deludente crescita italiana del periodo è questa: “about 60% of the deterioration in Italy’s growth performance can … be directly attributed to Italy s self-imposed commitment to the EMU norms”. Ma è più in generale l’Eurozona nel suo complesso ad essere l’area a minor crescita del mondo.
Per questi trent’anni perduti, connotati da deflazione salariale, distruzione dell’economia mista, taglio ai servizi sociali, crescita economica stentata e quindi anche aumento del debito, gli indiziati sono parecchi.
La borghesia italiana, renitente a investire (anche quando, come nel 1992/3, l’aumento degli investimenti era stato pattuito quale contropartita dell’abolizione della scala mobile), ma assai rapida nel salire sulla scialuppa delle privatizzazioni: “il capitalismo delle bollette”, come è stato definito.
L’ideologia (e la prassi) del vincolo esterno: fatta propria da un’intera classe dirigente (politica, tecnocratica ed economica) che all’inizio degli anni Ottanta decide di risolvere i problemi sociali “legandosi le mani” e facendo fare a qualcun altro il lavoro sporco.
In particolare, ai mercati internazionali dei capitali, alle cui amorevoli cure, con il divorzio Tesoro-Banca d’Italia del 1981, avvenuto – non lo si ricorderà mai abbastanza – senza alcun passaggio parlamentare e con un semplice scambio di lettere tra le parti, è affidato il debito pubblico italiano: con il risultato di vederlo raddoppiato in 10 anni.
Poi, per risolvere il problema che avevamo con i mercati finanziari internazionali, abbiamo pensato bene di rivolgerci alla Germania. L’ingresso nell’euro è stato in effetti visto come un traguardo precisamente al fine di ricevere protezione, all’ombra della “credibilità” tedesca, dai mercati internazionali, a seguito della crisi del 1992. Crisi che, a ben vedere, ci aveva dato due lezioni: gli effetti devastanti della speculazione su un paese che aveva scelto – attraverso l’indipendenza della Banca Centrale dal Tesoro – di non monetizzare più il debito, ma anche l’insostenibilità per l’Italia di un sistema a cambi semi-fissi quale lo SME.
Si impara soltanto la prima lezione e, volendo mantenere a tutti i costi l’indipendenza della Banca Centrale realizzata nel 1981, si decide di imboccare la strada che porta a un sistema di cambi (irrevocabilmente) fissi.
Qui entra in gioco un altro protagonista: l’ideologia europeista, condivisa a questo punto non soltanto più dall’establishment tradizionale, ma anche dall’intera sinistra italiana postcomunista: l’Europa è considerata più in generale come una frontiera di civiltà, come uno strumento di modernizzazione del nostro paese (che per la verità era già, pur tra contraddizioni anche gravi, uno dei paesi più moderni del mondo).
1.2. I vantaggi e gli svantaggi della moneta unica
I vantaggi della moneta unica sono rappresentati dalla fine del rischio di cambio e dalla convergenza dei tassi d’interesse verso quelli tedeschi. La prima ha consentito un incremento ha ridotto i costi di transazione e favorito gli scambi interni all’area monetaria, la seconda ha consentito di ridurre gli interessi sul debito.
Gli svantaggi sono rappresentati … dalla fine del rischio di cambio e dalla convergenza dei tassi d’interesse verso quelli tedeschi. In altri termini: quelle stesse conseguenze della creazione della moneta unica di cui per lungo tempo la nostra pubblicistica ci ha decantato gli effetti positivi hanno avuto effetti negativi non trascurabili.
In effetti la fine del rischio di cambio è l’altra faccia della medaglia della perdita della sovranità monetaria e della conseguente emissione del debito in una moneta straniera, per di più regolata da una Banca Centrale indipendente che ha il divieto di acquistare titoli del debito pubblico degli Stati e il cui unico obiettivo è la stabilità dei prezzi (e non l’occupazione) – caratteristiche che pongono un problema di compatibilità tra gli obiettivi che ispirano la nostra Costituzione e quelli perseguibili nel contesto dei Trattati europei. Inoltre il valore di questa moneta verso l’”estero” (ossia verso i paesi che non fanno parte dell’eurozona) ovviamente sarà il prodotto della media della forza economica dei paesi membri: con il risultato che per il più competitivo la moneta unica sarà una moneta sottovalutata (rispetto a quello che sarebbe stato il valore della sua singola moneta in assenza dell’unione monetaria) mentre per i meno competitivi sarà sopravvalutata. Infine, ed è questo l’aspetto essenziale, l’eliminazione di un meccanismo di mercato di riaggiustamento dei differenziali di competitività quale quello rappresentato dalla flessibilità del cambio – meccanismo che, ove presente, impedisce si creino squilibri troppo marcati nella bilancia commerciale dei paesi membri – accresce l’importanza di un altro fattore di competitività: quello consistente nella “moderazione salariale”. In altri termini, l’impossibilità di effettuare svalutazioni “esterne” costringe alla svalutazione interna, ossia a ridurre e tenere bassi i salari, quale strumento principe per il recupero della competitività.
Come noto, prima della crisi europea la Germania, soprattutto a partire dal 2005 (entrata in vigore dell’Agenda 2010 di Schröder), ha giocato con spregiudicatezza questa carta, come evidenziato tra gli altri dall’economista tedesco Peter Bofinger nel 2015, il quale ha evidenziato il ruolo giocato dalla politica mercantilistica tedesca imperniata sulla “moderazione salariale” nella genesi della crisi dell’Eurozona (cfr. grafico sottostante).
Come si vede dal grafico che segue, tratto invece da un testo di Francesco Saraceno, negli anni considerati, la performance della Germania in termini di “moderazione salariale” spicca non soltanto nel confronto europeo, ma più in generale tra i paesi Ocse.
Quanto alla convergenza dei tassi di interesse verso quelli tedeschi, il vero obiettivo inseguito dall’Italia entrando nella moneta unica, essa ha come noto in effetti abbassato notevolmente i tassi di interesse di molti Paesi dell’eurozona, tra cui il nostro, alleggerendo notevolmente l’onere rappresentato dal servizio del debito (pubblico e non solo).
Ma proprio questo ha, d’altra parte, aumentato la propensione all’indebitamento nei paesi interessati. Si è così verificato il fenomeno descritto nel ciclo di Frenkel, per cui questi paesi alimentano squilibri di bilancia commerciale, che sono però mascherati dalla creazione di debito, finanziato da altri paesi dell’area monetaria la cui bilancia commerciale è per contro in attivo.
Questo ci porta direttamente alla crisi. Che non è stata una crisi di debito pubblico, ma una crisi nata da squilibri delle bilance commerciali. La circostanza è stata ammessa sin dal 2013 dalla stessa Bce, come si vede dal grafico sottostante, tratto da una conferenza del suo vicepresidente Vitor Constancio, tenuta ad Atene nel maggio 2013; esso evidenzia che la variazione significativa nel debito dei Paesi periferici dell’Eurozona negli anni precedenti la crisi riguarda l’accumulo di debito privato e non di debito pubblico (soltanto in Grecia e Portogallo aumenta il debito pubblico, comunque in misura inferiore all’accumulo di debito privato).
1.3. Gli aspetti critici dell’adesione dell’Italia alla moneta unica alla luce della crisi dell’area dell’euro
La crisi, tra i molti evidenti lati negativi, ha un aspetto indubbiamente positivo: essa ha messo in luce alcuni aspetti gravemente disfunzionali dell’architettura dell’Eurozona. La crisi è in un primo periodo importata in Europa dagli Stati Uniti e assume la forma di crisi da calo del commercio estero, e conseguentemente colpisce in particolare due paesi esportatori quali la Germania e l’Italia; sotto il profilo finanziario sono invece investite dalla crisi in particolare le banche di Francia e Germania. Questo determina un sudden stop nei flussi di capitale dai paesi centrali dell’Eurozona (i cosiddetti “paesi core”) a quelli periferici.
A fine 2009 inizio 2010 inizia la crisi della Grecia e la cosiddetta “crisi del debito sovrano”. La Bce, in coerenza con quanto previsto dal Trattato di Maastricht, si rifiuta di intervenire (peggiorando drasticamente una crisi che sarebbe stata facilmente gestibile con un costo finanziario limitato), i rendimenti dei titoli di Stato greci vanno alle stelle, e si produce un effetto domino: tutti i paesi considerabili a rischio – per motivi diversi – vengono prima o poi investiti dalla speculazione (sovente trasfigurata in “severità disciplinatrice dei mercati”), in quanto la Bce dà ai mercati il messaggio che non interverrà a loro difesa.
Il risultato per quanto riguarda l’Italia, in termini di differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato italiani a 10 anni e dei loro omologhi tedeschi, è raffigurato nel grafico seguente.
È stato posto in luce come l’appartenenza stessa alla moneta unica abbia comportato per i paesi membri una minore flessibilità di risposta alla crisi rispetto a paesi che non ne fanno parte (De Grauwe, per esempio, ha confrontato le diverse performance post-crisi di Spagna e Regno Unito):[14] in effetti, è evidente che nessun paese membro dell’Eurozona può effettuare una politica monetaria indipendente, abbassare i tassi in maniera perfettamente appropriata alle condizioni della propria economia, né svalutare.
Ma c’è di più. La gestione della crisi è stata connotata da 3 gravissimi errori:
1) il rifiuto di considerare la realtà dei meccanismi alla base della divergenza tra paesi;
2) l’interpretazione “morale” delle divergenze nell’eurozona (i paesi in deficit sono sconsiderati, i paesi in avanzo sono virtuosi);
3) la centralità attribuita al debito pubblico, anziché agli squilibri della bilancia dei pagamenti.
Le conseguenze di questo approccio sono molto serie:
1) il primo errore impedisce di affrontare i nodi strutturali del problema (arrivando sino a negare che gli avanzi eccessivi, pur sanzionabili in base al Patto per la stabilità e la crescita del 1999, siano un problema);
2) il secondo errore comporta il tentativo di realizzare un riequilibrio tra le economie tutto a spese dei debitori (l’aggiustamento è chiesto solo a loro, e non anche ai paesi creditori);
3) il terzo errore, infine, ha per conseguenza l’imposizione ai paesi in crisi politiche pro-cicliche (di restrizione fiscale) che peggiorano la situazione.
Il risultato possiamo osservarlo confrontando le ben differenti performance di Italia e Germania in termini di crescita dopo l’inizio della crisi.
Quanto alle politiche monetarie adottate al fine di superare la crisi dalla BCE, esse sono state tardive e insufficienti.
Sono state tardive, e non per caso: il ritardo serviva a imporre “la disciplina dei mercati finanziari”. Per quanto riguarda il caso italiano, lo stesso Luigi Zingales ne ha parlato in termini molto duri: “It was a form of economic waterboarding that has left the Italian economy devastated and Italian voters legitimately angry at the European institutions”.
Esse sono state utili a impedire la fine dell’euro – e in effetti sono state adottate non prima di quando tale prospettiva ha cominciato a profilarsi seriamente all’orizzonte -, ma al tempo stesso sono state insufficienti a risolvere la crisi. Questo per diversi motivi: perché la BCE non è (non può essere ai sensi del Trattato di Maastricht) garante di ultima istanza dei debiti sovrani e perché l’effetto delle politiche monetarie espansive, convenzionali (diminuzione dei tassi d’interesse) e non convenzionali (acquisto titoli e assets vari sui mercati finanziari) è stato neutralizzato da politiche di bilancio restrittive (austerità e controllo dei bilanci pubblici).
Ulteriori misure di integrazione, dichiaratamente nate per combattere la crisi, hanno avuto effetti perversi soprattutto per l’Italia: un caso emblematico è rappresentato al riguardo dalla cosiddetta “unione bancaria europea”, assolutamente squilibrata e asimmetrica: un’unione nata per eliminare la balcanizzazione finanziaria, ma venuta alla luce senza la sua unica componente in grado di contrastarla. In estrema sintesi, l’unione bancaria europea è caratterizzata:
1) Quanto al primo pilastro (vigilanza unica), da una forte asimmetria in termini di percentuale di copertura dei diversi sistemi bancari nazionali da parte della vigilanza europea; nel grafico che segue è rappresentata la quota degli attivi bancari sotto diretta supervisione Bce, dopo la creazione dei due gruppi del credito cooperativo.
2) quanto al secondo pilastro (meccanismo di risoluzione unico: il bail-in), esso sconta l’asimmetria delle condizioni di partenza (come si può vedere dal grafico sottostante, nel 2013, quando si negozia l’unione bancaria, praticamente tutti i paesi dell’eurozona, tranne il nostro, avevano effettuato massicci salvataggi pubblici [bailouts] delle loro banche).
Nota: * incluse le garanzie.
Fonte: Commissione Europea, DG Concorrenza, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 16 agosto 2013.
A questo vanno aggiunti:
a) lo strabismo della vigilanza europea, che ha considerato assolutamente prioritario il controllo del rischio di credito, mentre ha trascurato il rischio di mercato, portatore di potenziale instabilità ben maggiore in termini di rischio sistemico.
Nel grafico sotto si può vedere come gli aggiustamenti richiesti a fronte dell’Asset Quality Review della Bce si siano concentrati soprattutto sulle attività creditizie.
Questo grafico evidenzia invece l’entità dei derivati detenuti in bilancio nel 2017 in percentuale del totale attivo, segnalando come in particolare le banche di Francia e Germania siano portatrici di un rischio di mercato molto elevato, in relazione al quale la vigilanza BCE ha manifestato ben minore attenzione di quella esercitata sul rischio di credito;
b) decisioni sbagliate della Commissione Europea, come quella di proibire, nel novembre 2015, l’intervento del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi per salvare alcune piccole banche italiane (considerandolo erroneamente un “aiuto di Stato”).
Il combinato disposto dell’asimmetria nelle condizioni di partenza dei vari sistemi al momento dell’ingresso nell’unione bancaria europea (vedi sopra punto 2)) e di queste decisioni hanno trasformato l’entrata in vigore del bail-in, nel gennaio 2016, in un vero e proprio tsunami che in meno di 3 mesi ha cancellato il 35% della capitalizzazione di borsa delle banche italiane.
3) quanto al terzo pilastro, ossia la garanzia (poi si è detto “assicurazione”) europea dei depositi, esso è semplicemente assente, contrariamente a quanto originariamente previsto.
Senza l’assicurazione europea sui depositi, l’Unione bancaria è un tavolino a due zampe, con quello che ne consegue in termini di stabilità. Ma, soprattutto, essa ha perso il suo originario significato. O, per usare le parole dell’ex direttore generale della Banca d’Italia, Salvatore Rossi, “l’effettiva attuazione del progetto ha preso una direzione diversa”[17] da quella originaria.
Seguiamo l’argomentazione di Salvatore Rossi:
“In sostanza, le banche sono divenute europee solo in un senso, ovvero in quanto vigilate e sottoposte a risoluzione a livello europeo. Il circolo vizioso tra settore bancario ed emittenti sovrani non è stato spezzato, tuttavia alle banche è stata imposta una camicia di forza volta a garantire che, in caso di fuga dai titoli di Stato emessi da un sovrano, le banche di quel paese non verranno salvate dai contribuenti, di quello stesso paese o di altri. In termini ancora più espliciti, a un contribuente tedesco non si potrà mai chiedere di finanziare il salvataggio di una banca italiana in crisi per il peso, nel proprio bilancio, di titoli di Stato italiani in rapida discesa sui mercati. In un caso simile, sarebbero i creditori della banca, prevalentemente italiani, a farsene carico.”[18]
Non si è troppo malevoli se si traduce così il risultato: la funzione originaria e dichiarata dell’unione bancaria europea era quella di ridurre la frammentazione/balcanizzazione finanziaria dell’Europa intervenuta con la crisi (e i conseguenti rischi in termini di stabilità e tenuta della moneta unica); quella effettiva è consistita nel prendere in ostaggio le banche italiane, sulle quali (nel quadro istituzionale attuale) ogni incremento significativo dello spread sui titoli di Stato italiani determina pesanti ripercussioni in termini di conto economico e di capitale (è il film che abbiamo visto nel maggio e nel settembre 2018).
A questo proposito consentitemi di enunciare un vero e proprio paradosso dei dibattiti sull’euro.
Nel nostro paese è molto diffusa, anche in ambienti che si credono progressisti (anzi, soprattutto in quelli), una concezione apocalittica delle prospettive legate alla possibile fine della moneta unica, e addirittura la convinzione che la fine della moneta unica sia impossibile a priori. A Bruxelles e Francoforte, invece, si crede tanto poco in tutto questo che si cerca di sventare l’eventualità della fine della moneta unica: in particolare, rendendo una possibile “uscita” più difficile e onerosa.
Così, mentre in Italia illustri studiosi, ignorando la lex monetae contemplata anche dal nostro codice civile, anni fa si affannavano a spiegare che in caso di “uscita” il debito pubblico avrebbe dovuto essere ripagato in euro, in sede di creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità venivano previste clausole punitive per le nuove emissioni di debito pubblico, precisamente per limitare in concreto l’efficacia della lex monetae.
L’altra contromisura assunta riguarda gli effetti dell’unione bancaria sulle banche italiane, in particolare impedendo in radice la possibilità di un rifinanziamento pubblico delle banche italiane, sottraendole alla vigilanza nazionale e sottomettendole alle nuove regole del bail-in (che comportano l’esclusione quasi assoluta del salvataggio pubblico delle banche, che anche ove possibile è legato a condizionalità molto stringenti). Questo ovviamente rende il legame tra rischio paese e rischio banche – precisamente il legame che in teoria l’unione bancaria avrebbe dovuto recidere! – tanto più pericoloso: perché rende forti rialzi dello spread una immediata minaccia per la stabilità delle banche italiane che li hanno in portafoglio.
È nel contesto di quanto sopra che va valutato quanto sappiamo su ciò che è accaduto dopo il 4 marzo.
Occorre ancora un elemento preliminare, ma è così noto che mi limito a enunciarlo: a fare l’esecutore materiale di tutto quanto abbiamo visto sopra, insomma gli artefici del “successo catastrofico” di cui ho dato qualche cifra, sono stati la sinistra postcomunista e il centro postdemocristiano, dal 2008 plasticamente riunitisi in un unico partito: sono loro, in particolare, i principali responsabili del governo Monti, che ci ha lasciato in eredità non soltanto la crisi peggiore dall’Unità d’Italia, ma anche – e precisamente per questo – un incremento del rapporto debito/pil del 13% (in termini percentuali, è poco meno dell’entità dell’intero decremento del debito tra il 1994 e il 2008!).
Dei governi successivi non c’è molto da dire, ad eccezione dell’iniziale tentativo di sfilarsi di Matteo Renzi dalla logica di una supina accettazione dei diktat europei, tentativo prontamente normalizzato: lo provano il jobs act, l’incapacità di capire la necessità di sospendere l’entrata in vigore dell’unione bancaria (pessimamente negoziata dal precedente governo Letta) e la conseguente crisi bancaria di inizio 2016. Questa crisi è stata tutt’altro che estranea al declino della stella renziana, poi definitamente consumatosi a causa del drammatico errore consistente nel referendum costituzionale (anch’esso motivato con la volontà di esibire il trofeo di tale “riforma strutturale” nel consesso europeo). Dopo la parentesi dimenticabile del governo Gentiloni, siamo così al 4 marzo.
1.4. Dopo il 4 marzo 2018
Il voto del 4 marzo esprime un rifiuto delle politiche dei passati governi.
Nel giugno 2018 nasce il governo giallo-verde. Esso riunisce 2 partiti che, per quanto differenti tra loro, sono stati entrambi premiati dal voto in quanto portatori – a giudizio dei loro elettori – di una rottura con le prassi dei governi precedenti, anche in rapporto all’atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea.
È subito evidente un tentativo di “normalizzazione” di questa compagine, attraverso i ministri di quello che è stato definito come il “terzo partito”: il partito del presidente della Repubblica (che nella formazione del governo ha esercitato le proprie prerogative ai limiti – e forse oltre – di quanto previsto dalla Costituzione). Questo è immediatamente chiaro per quanto riguarda il Ministro delle Finanze Tria – ed è oggi chiaro per quanto riguarda lo stesso presidente del Consiglio, Conte.
L’approccio del governo è comunque più pugnace di quello dei governi precedenti, e la stessa manovra economica proposta, imperniata su “reddito di cittadinanza” e “quota 100”, è sensata: in presenza di un evidente rallentamento del ciclo e di un ormai cronico insufficiente contributo della domanda interna alla crescita, è evidente la ratio di una manovra basata sulla spinta ai consumi; la stessa obiezione tradizionale, “spesa pubblica sì, ma va fatta per investimenti”, non tiene conto (intenzionalmente o per ignoranza) di una circostanza fondamentale: il ritorno in termini di crescita della spesa per investimenti è più lenta, e quindi nulla avrebbe garantito un trattamento di maggior favore per essi da parte della Commissione Europea; del resto, in base ai calcoli di quest’ultima – condotti in base a una metodologia opinabilissima, imperniata sullo pseudoconcetto di “output gap” -, l’Italia è finita in un equilibrio di sottoccupazione e può tranquillamente restarci.
La risposta alla manovra del governo è di assoluta chiusura da parte della Commissione Europea, a cominciare dal commissario Moscovici (che dopo qualche mese aprirà la non fortunatissima campagna elettorale per le elezioni europee dell’attuale ministro delle finanze designato).
Ma c’è di peggio: importanti esponenti istituzionali, in visita alla City di Londra, dichiarano di “sperare nei mercati”, e il commissario Oettinger si dice fiducioso che “i mercati insegneranno agli Italiani come votare” (in seguito si accontenterà che abbiano “imparato a votare” i parlamentari italiani, e per incentivarli dirà – lo ha fatto nei giorni scorsi – che a Bruxelles “si farà il possibile per facilitare il lavoro del nuovo governo italiano, quando entrerà in carica”).
Il bastone dei mercati comincia ad agire e fa danni, in particolare sul settore bancario (i motivi li ho accennati sopra).
Olivier Blanchard (a suo tempo uno dei responsabili del FMI per il disastro greco), con ammirevole tempismo, escogita una nuova teoria: l’espansione fiscale restrittiva. In sintesi: l’effetto positivo di una manovra espansiva può essere più che bilanciato dall’aumento degli interessi richiesti dagli investitori per acquistare i titoli di Stato del paese in questione. La teoria è corretta. Il problema è la catena causale: è infatti evidente che le pretese degli investitori aumenteranno quanto più le istituzioni europee avranno assunto un atteggiamento rigido nei confronti del governo “colpevole” di attuare misure espansive.
Il governo scende a più miti consigli, e riduce il deficit contemplato dalla manovra al 2%.
Nel frattempo Tria e Conte blindano (con la lettera del 2 luglio 2019, scritta per chiudere una procedura d’infrazione, aperta da una Commissione uscente, che non sarebbe comunque mai andata avanti alla luce della frenata dell’economia tedesca) la manovra 2020 in senso restrittivo e negoziano (cioè non negoziano) una riforma a noi sfavorevole dell’ESM, che una volta approvata renderà assai onerosa (per davvero) un’uscita dalla moneta unica – e quindi renderà concretamente possibile una ristrutturazione del debito italiano restando nell’eurozona. Tutto questo rifiutandosi di fatto di rendere partecipe il parlamento preventivamente dei loro orientamenti negoziali, in violazione di una legge del 2012 che per ironia della sorte reca la firma di un loro collega nel primo governo Conte, Enzo Moavero. La stessa lettera del 2 luglio diverrà pubblica a quasi due mesi di distanza da quando è stata scritta.
Ad agosto Salvini apre la crisi.
Dalla “Repubblica” del 7 settembre sappiamo che nei primi giorni di agosto il presidente del Consiglio in carica Conte incontra Visco per ricevere i suoi consigli… sul successivo esecutivo.
L’esito della crisi è noto, come pure le inusitate aperture della Commissione Europea (destinate con tutta probabilità a restare puramente verbali).
Frattanto gli editorialisti economici dei nostri principali quotidiani, da apocalittici, diventano improvvisamente integrati: lo stesso Federico Fubini che ricordiamo prospettare sciagure bibliche e procedure d’infrazione inesistenti sul “Corriere della sera” (smentito in 4 casi dal corrispondente a Bruxelles del suo stesso quotidiano) ora chiede al governo di fare più deficit e si dice confidente nell’apertura e benevolenza delle istituzioni europee.
Più cauto, Claudio Tito su “Repubblica” ammonisce che “la concreta chance che la nuova Commissione europea accordi all’Italia una consistente dose di flessibilità sui conti del prossimo anno sarà subordinata all’impostazione di una comunicazione sotto tono. Anche perché gli obiettivi di bilancio del nostro paese sono talmente complicati da renderli raggiungibili solo con la collaborazione di Bruxelles. Va tenuto presente, ad esempio, che nell’ultima lettera inviata da Conte e Tria alla Commissione – quella scritta in extremis per evitare la procedura d’infrazione – l’Italia si era impegnata ad una ‘ampia adesione al patto di Stabilità e crescita’. L’obiettivo del 2 per cento nel rapporto deficit-pil fissato nell’ultimo Def appare già fin troppo permissivo. Il vincolo potrebbe risultare più stretto. E se poi si considera la partenza ad handicap determinata dalle clausole di salvaguardia per 23 miliardi e i tanti indizi – confermati dai dati dell’economia tedesca – di una ulteriore fase recessiva continentale, la cinghia rischia di comprimersi ulteriormente“.
Questo è quello che sappiamo.
2. Che fare?
Personalmente rispetto la posizione di cauta (o benevola?) attesa di Stefano Fassina nei confronti del governo giallo-rosé, ma non è la mia.
Per pochi semplici motivi:
Questo è un governo di normalizzazione, è la vittoria degli Oettinger e dei Moscovici.
Questo è il governo della Commissione Europea.
È anche un governo che nasce con una tara fondamentale: il collante fondamentale tra i partiti di governo non è programmatico, ma è la paura delle elezioni. Questo scava un ulteriore solco tra chi se ne fa promotore e una parte rilevante (ritengo tendenzialmente maggioritaria) del popolo italiano.
È un solco che va ad aggiungersi a quelli già scavati dai governi che si sono succeduti tra il 2011 e il 2018. È un’altra medaglia da aggiungere al palmares di una “sinistra” che dagli anni Novanta in poi si è intestata tutto quanto previsto dal manuale delle giovani marmotte liberiste: dalle privatizzazioni all’attacco ai diritti del lavoro, dal ridimensionamento dello Stato sociale all’attacco alla scuola pubblica, e così via.
Non esiste futuro per una sinistra che appoggi questo governo.
Una sinistra che fa questo lascia alla destra, e solo a lei, una prateria sconfinata, nella quale questa pascolerà. Se poi questa destra avrà l’intelligenza (che sinora grazie ai Zaia è mancata) di diventare il vero “partito della nazione” – quello di cui ci parlava Alfredo Reichlin nelle sue ultime riflessioni –, allora davvero le prospettive politiche in questo paese saranno suggellate per un lungo periodo.
Questa è la verità. Che a volte può dare fastidio, ma è sempre “rivoluzionaria”. E questo non lo ha detto Nietzsche.
Articolo originale e completo delle note a questo LINK
]]>Parla Daniela Aiuto, che si autosospese per un rimborso contestato e non ha mai potuto difendersi: “Davide è del tutto privo di empatia. La sua rappresentante comunicazione in Europa è arrivata a contestare alle donne come si vestono o si truccano. Orban? Da Roma volevano che ci astenessimo”.
«Nel Movimento 5 Stelle gli eletti sono al servizio della comunicazione, e non il contrario. Comunicazione fatta di persone di solito provenienti dalla Casaleggio, o scelte lì. Queste persone sono diventate il gestore delle nostre esistenze, non della comunicazione soltanto. Entrano nelle nostre vite perché possono decidere il successo o l’affossamento mediatico del singolo eletto. Si è arrivati anche a dire a qualche mia collega come doveva truccarsi o vestirsi. E non si colgono più i contorni dei criteri di meritocrazia». Chi pronuncia questa straordinaria denuncia è Daniela Aiuto, tuttora europarlamentare del M5S. Aiuto si auto-sospese dopo che alcuni giornali raccontarono che aveva chiesto rimborsi al parlamento europeo per uno studio che sarebbe stato invece copiato da Wikipedia. Lei si difese sostenendo che aveva incaricato e pagato una società di consulenza, e di essere quindi lei la parte lesa. Ora Aiuto ha deciso: lascia lei il Movimento, senza aspettare fantomatiche espulsioni, e nell’impossibilità anche solo di difendersi, come capitò a Federico Pizzarotti.
Come andò a finire quella storia?
«Mi recai al cospetto di Davide Casaleggio. Gli spiegai che ero la vittima, e che ero pronta a produrre tutte le evidenze che lo dimostravano. Ero disposta anche a rifondere il Parlamento (come ho fatto subito dopo), nonostante l’assenza di mie responsabilità dirette. Mi colpì la sua totale mancanza di empatia. Tra l’altro in quel periodo attraversavo alcuni seri problemi familiari, gliene parlai, in maniera confidenziale. Non ebbe alcuna reazione. Mi disse di autosospendermi perché lui doveva tutelare l’immagine del Movimento».
Ma non dovrebbe essere solo «un consulente per la piattaforma web»? Poi cos’è successo?
«Nessuno mi ha più risposto. Inviai direttamente a lui la documentazione, che sarebbe dovuta passare anche al vaglio dei probiviri. Ma nulla accadde».
Un processo sommario, senza possibilità di dibattimento.
«Esattamente. Mi ha mortificato l’assenza di dialogo. Avremmo voluto rispondere in maniera diretta ai cittadini riguardo al nostro operato, e non ad una singola persona».
Lei sostiene che la storia dei rimborsi, anche nel suo caso, è stata usata per colpire qualcuno che volevano colpire, mentre vicende – spesso più gravi – vengono del tutto condonate agli amici del gruppo vincente?
«Sì».
E lei perché era così invisa?
«Io mi opposi a diverse cose, soprattutto fui una delle più critiche sul modo totalmente verticistico in cui avevano gestito la tentata adesione all’Alde. Esternai disappunto soprattutto sulla gestione comunicativa della vicenda. Noi deputati fummo tenuti all’oscuro di tutta la trattativa, portata avanti dai vertici e dal collega David Borrelli, uomo di fiducia di Beppe Grillo, ufficialmente per motivi di riservatezza e per farla andare a buon fine, come se non ci riguardasse. Però si trattava con la nostra faccia e i nostri nomi. Partecipazione, trasparenza, collegialità, tutto sparito. Questo non doveva essere il Movimento».
Anche per andare con Farage, per la verità, le cose non erano state granché decise dalla base né da voi.
«Ma allora almeno c’era un motivo, eravamo appena entrati, e non saremmo neanche stati in grado di intraprendere noi direttamente delle trattative . Andammo nell’unico gruppo dove ci dissero di andare in seguito alle votazioni online. Poi però nel corso del tempo cresceva il rischio che il gruppo con l’Ukip venisse sciolto dal parlamento europeo in quanto poteva dare l’impressione di essere un gruppo meramente tecnico e non “politico”, ed allora si tentò la via dell’Alde. Borrelli in ogni caso è uno di quelli con cui conservo un ottimo rapporto, siamo e rimarremo amici».
Perché Borrelli se ne va? Rompe con Davide Casaleggio?
«Da quello che ho capito, ci sono stati screzi sulla direzione politica. A Borrelli non piaceva, come a molti dentro il MoVimento, il nuovo statuto, che secondo lui non preservava lo spirito delle origini. Non condivideva la volontà di Casaleggio e Di Maio di andare al governo a tutti i costi. Penso che David (Borrelli) avesse un rapporto molto stretto con Gianroberto, con il figlio è stata tutta un’altra cosa».
Strano che però Borrelli non abbia subito nessuna macchina del fango.
«Vero. Alcuni vengono attaccati e altri no. Ricordo per esempio che dei due primi europarlamentari usciti, Grillo attaccò pesantemente Marco Affronte, mentre nessuno disse mai nulla su Marco Zanni, poi confluito nello stesso gruppo di Le Pern e Salvini».
Forse perché andava nella direzione giusta. Che fanno quando attaccano, scatenano i troll?
«Non solo. Guardi anche le sospensioni, o le autosospensioni. Non sono tutte uguali. Pensi a Giulia Sarti, autosospesa per vicende molto delicate, e poi riammessa».
Chi è l’intermediario della Casaleggio in Europa?
«Cristina Belotti, poi oggi al ministero con Luigi Di Maio. Io fino al febbraio 2017 avevo un ottimo rapporto con Luigi, a Roma è capitato anche di pranzare insieme, si parlava di quello che noi facevamo in Europa, cosa che giustamente lo interessava molto, ed eravamo diventati quasi amici. Poi è sparito, non mi ha più risposto. Una cosa che umanamente mi dispiace. Non faccio di tutta l’erba un fascio, nel Movimento ci sono tantissime persone che stimo. Io metto in discussione la subalternità di tutti alla comunicazione, cioè alla Casaleggio. Con me sono arrivati, per dire, a mettermi in pausa, come dicono loro, per due settimane per una foto uscita in un quotidiano locale accanto ad una Miss regionale. Una volta che mi autosospesi, mi fu persino imposto di togliermi una maglia con il simbolo del mio gruppo locale durante la marcia di Perugia per il reddito di cittadinanza. Quando mi hanno tolto l’uso del simbolo hanno iniziato a non sostenere più le mie iniziative sul territorio, e questo mi creava disagio perché si preferiva arrecare un danno al territorio, che veniva privato di informazioni ed eventi utili, non certo di promozione della sottoscritta. I boicottaggi avvenivano per mezzo e bocca dei leader locali benvoluti dai vertici. Un sistema piramidale che vige a Roma e si ripete in tutte le regioni, col “capetto” e il “vicecapetto” di turno».
Questo controllo gestito da Casaleggio come si esercita?
«Le faccio un esempio minore: la Belotti chiese a tutti noi eletti di consegnare la password di accesso alle nostre pagine Facebook. Lei voleva avere il potere di cancellare qualunque post ritenesse poco opportuno. Io ovviamente non gliela diedi, ma tanti altri sì».
Non è un esempio minore: a parte cancellare i post, l’accesso come admin alle pagine Facebook consente tante altre cose. Che lei sappia, è accaduto anche a Roma?
«Molto del successo del Movimento è stato costruito dalle pagine Facebook ed in generale dall’uso sapiente dei social network. Da quello che capivamo, chi gestiva i profili di Di Maio e di Di Battista era un’unica mente, che poi adattava il tenore dei post alle caratteristiche dei singoli esponenti».
Su Orban lei come ha votato? Ha visto che i vostri colleghi M5S alla Camera hanno votato in maniera molto più aperta a Orban, a differenza del gruppo a Strasburgo.
«Io mi sono astenuta, ma perché mi dava fastidio il metodo. Sa cos’è successo? La delegazione M5S in europa ha optato per confermare il voto dato in commissione, ossia a favore delle sanzioni ad Orban, anche se inizialmente da Roma si pensava a farci astenere. Poi però alcuni miei colleghi hanno convinto Luigi sul voto positivo».
Cosa pensa dell’accordo con la Lega che regge questo governo?
«Politicamente è cosa saggia avere accordi prima delle elezioni, meglio se scritti. Raggiungere percentuali che avrebbero consentito un governo monocolore del movimento era francamente irrealistico. La Lega sarà sembrata la forza politica che almeno sui punti economici potesse avere delle basi in comune».
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