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TTIP e TTP: le poste in gioco

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[pullquote]…..ormai non ci sono più tariffe da abbassare e quindi i negoziati hanno ad oggetto le altre barriere “non tariffarie”; sono queste ormai che fanno “gli affari costosi” per le grandi multinazionali. Di qui l’enfasi sulla “armonizzazione” (al ribasso) in favore del profitto. Il punto è che qui si parla solo del profitto delle grandi società sostanzialmente a danno dei beni pubblici tutelati dalle norme in oggetto (protezione dell’ambiente, del lavoro, della salute, della sicurezza)…[/pullquote]

In questi giorni si sta nuovamente, dopo le rivelazioni di Greenpeace, riaccendendo la polemica sulle oscure trattative per la stipula del Trattato commerciale TTIP tra l’Unione Europea e gli USA che sono in corso dal 2010.

Entrambe le squadre di negoziatori, come è del resto consuetudine in questo genere di trattati, operano al coperto di imponenti misure di riservatezza che sono erette anche verso i rappresentanti politici del Congresso USA e del Parlamento Europeo. I funzionari della Commissione preposti, come ha francamente ammesso ad ottobre Cecilia Malmström, che è il Commissario al Commercio Europeo, non reputano di dover rispondere al popolo europeo. Testualmente il funzionario ha risposto “il mio mandato non deriva dal popolo europeo”. Su un livello si potrebbe dire che viene dai “governi” europei (che, tuttavia dovrebbero rispondere al popolo), ma più precisamente, ad un livello più specifico, credo si possa dire che viene da quei segmenti di quel mondo separato che l’ultimo Dahrendorf, ad esempio, chiamava non senza preoccupazione “nuova classe globale”.

Pensiamoci un attimo, l’insieme delle tecnostrutture specializzate negli uffici della Commissione Europea, degli stessi Commissari in quanto cooptati, delle strutture decisionali e degli occupanti delle sedi di rappresentanza a Bruxelles delle migliaia di aziende con proiezione internazionale e delle loro organizzazioni di secondo livello, degli uffici di indirizzo e sostegno dei diversi stati membri, dei delegati nazionali, dei tanti professionisti specializzati nella “traduzione” di questi diversi input normativi ed organizzativi centrali e periferici (e quelli delle organizzazioni di mezzo di cui parla Kjaer), … le procedure di accesso selettivo di cui parla Scharpf, tutto questo consolida quello che potremmo chiamare “un consenso”. E che, volendo dargli una etichetta, potremmo chiamare “Il Consenso di Bruxelles”.

Sia chiaro, nel dire questo bisogna comprendere che non si sta evocando alcuno oscuro complotto, è tutto aperto ed alla luce: il “consenso” non è una decisione presa da qualcuno, non è un protocollo, un libretto di istruzioni, un club con elenchi, un luogo di riunione (anche se informa decisioni, ha protocolli, esistono libretti, ci sono club e luoghi). E’ più un ‘sistema d’azione concreto’ (vecchio concetto della sociologia delle organizzazioni di Crozier) e soprattutto una cultura condivisa.

In questo senso quelli che operano nel determinare “il mandato” cui il Commissario fa riferimento non sono i lobbisti (che ovviamente sono presenti, attivi e determinanti), ma una sorta di superclasse che esprime un potere capace di pensarsi come sovranità.

Mettiamo in un angolo questa riflessione, perché poi ci torniamo, e proviamo a chiedere quale è la materia del negoziato, per chi è negoziata e quali sono le conseguenze.

Per quel che si capisce, e non è molto, l’oggetto del negoziato è l’armonizzazione delle “barriere non tariffarie” (perché quelle tariffarie sono molto basse) rimaste dopo l’applicazione dei trattati di libero scambio negli anni duemila ed il costante lavoro in questo senso del WTO. In particolare sono in questione due dimensioni specifiche: le norme che consentono agli stati, ed alla UE, di applicare misure di restrizione dei commerci per salvaguardare salute e sicurezza dei cittadini incluse nei Trattati WTO; e quelle che limitano (o estendono) i diritti di proprietà intellettuale. Sono due questioni di grandissima importanza.

Dal punto di vista del sistema d’azione cui risponde “il mandato” del Commissario (e dei negoziatori USA), però, sono questioni relativamente ovvie: le due limitazioni ostacolano l’efficienza del sistema economico. Ovvero, specificamente, ostacolano il profitto dei suoi attori essenziali (quelli rappresentati). Per la sovranità che si esprime (e che non è quella democratica) la questione si pone dunque in termini di funzionamento. Qualcosa di mal definibile (ma altrimenti non produrrebbe “un consenso”) che è considerato come assoluta banalità-in-sé perché del tutto “naturale”.

Dal punto di vista delle élite, anzi della concatenazione di queste con sistemi di regole e strutture, è, in effetti, la natura stessa del mondo (nel suo necessario funzionamento economico e sociale) che è in gioco.

Ma ci sono anche altre visioni: Stiglitz, ad esempio, argomenta che gli accordi, negoziati non a caso in segreto, vertono in realtà sulla facoltà delle grandi aziende multinazionali di proteggere i loro potenziali profitti dalle norme ambientali, di sicurezza sul lavoro, o di protezione dai rischi finanziari. “L’armonizzazione normativa”, che dicono di perseguire, è infatti chiaramente verso il basso, l’unico valore che sembra riconosciuto meritevole di tutela è il profitto. O, visto da un altro lato, l’efficienza. Anche in base alle altre bozze trapelate (sull’accordo gemello, il TTP) l’impressione del nobel americano è che tutto andrà a esclusivo beneficio della “ricca scheggia della élite americana e mondiale”, contro tutti gli altri.

Il motivo specifico è che ormai non ci sono più tariffe da abbassare (infatti sono già irrilevanti) e quindi i negoziati hanno ad oggetto le altre barriere “non tariffarie”; sono queste ormai che fanno “gli affari costosi” per le grandi multinazionali. Di qui l’enfasi sulla “armonizzazione” (al ribasso) in favore del profitto. Il punto è che qui si parla solo del profitto delle grandi società sostanzialmente a danno dei beni pubblici tutelati dalle norme in oggetto (protezione dell’ambiente, del lavoro, della salute, della sicurezza).

L’idea sembra essere di usare questo chiavistello per riposizionarsi nel mondo che c’era prima dell’ondata normativa degli anni sessanta e settanta.

Specificatamente i punti critici sono la facoltà di accesso al Tribunale Internazionale, per mettere sotto accusa lo Stato di turno e le sue norme, quando una società internazionale che opera in esso reputa che il suo diritto a conseguire un legittimo profitto ne viene ferito. Un settore in cui tale criterio potrebbe essere utilizzato è quello della vendita di prodotti potenzialmente pericolosi, come le sigarette, o coperti da brevetti, come i farmaci.

Chi sostiene l’accordo utilizza teorie che Stiglitz denuncia come “false”, ma ancora in circolazione sostanzialmente perché “servono gli interessi dei ricchi” (sono quindi molto vantaggiose per chi le avanza e la sua organizzazione). Tra queste non esita a citare la comune teoria del “libero commercio” (cioè quella visione secondo la quale esso è sempre un bene); secondo la quale, anche se ci sono vincitori e vinti, non può essere un problema, perché il saldo è largamente positivo e ci sarà comunque modo di compensare i perdenti (con i sussidi di disoccupazione, o con altre politiche di risarcimento).

Questa antica teoria si basa su numerosi presupposti impliciti sbagliati: il primo è che i lavoratori si possano muovere senza problemi tra i posti di lavoro (passando, ad esempio, dal settore della produzione tessile che si sposta in India, all’informatica avanzata che cresce per gestire il decentramento) e da settori a bassa produttività a settori ad alta. In sostanza l’idea implicita è che se un lavoratore resta disoccupato mentre opera in un settore poco produttivo (e quindi debole rispetto a una concorrenza estera che era sotto controllo solo grazie ai dazi o ad altre barriere), trova subito una nuova occasione, perché nel frattempo si formano nuove aziende ad alta produttività che lo assorbono. Ovviamente perché, non essendoci (nei modelli non c’è mai) disoccupazione, il nuovo imprenditore può rivolgersi solo a lui che è libero. Peccato che quando c’è, invece, un alto livello di disoccupazione la cosa vada in modo radicalmente diverso (ed oggi in Europa c’è molta disoccupazione). Ciò che succede, in realtà, è che il nuovo disoccupato si aggiunge semplicemente ai precedenti, e contribuisce ad alzare la pressione al ribasso sui salari. Da un “occupato a bassa produttività”, si passa a un disoccupato “a zero produttività”.

Cosa succede, per quanto possa anche essere piccolo, quando l’abbattimento di alcune barriere non tariffarie, cui un dato ecosistema aziendale e sociale è adattato, vengono ridotte in direzione di quelle, molto meno esigenti, di un altro? Che quest’ultimo si trova a disporre di un immediato e del tutto gratuito vantaggio competitivo. Se l’industria del vino italiana, o francese, organizza il suo prodotto lungo tutta la filiera con criteri biologici, mentre quella americana può fare uso di tecniche e di prodotti geneticamente adattati che gli forniscono dei vantaggi ma gli impediscono l’accesso, e questa barriera cade il risultato immediato sarà una forte esportazione di vino dagli USA e importazione in Europa. Dunque la chiusura delle cantine, la riconversione dei vigneti etc. all’opera in Italia e Francia. Secondo la teoria economica ciò che cosa comporterebbe? Che i relativi fattori produttivi (capitale e lavoratori) saranno liberi di impiegarsi in qualche settore più competitivo, con vantaggio comune. Ad esempio andare a produrre elettronica industriale (in cui alcune industrie tedesche, ma anche italiane, hanno dei vantaggi). Inoltre l’effetto sarà al termine di un riadattamento globale, l’innalzamento della soglia minima necessaria per stare sul mercato. Invece di molte aziende vinicole ne avremo di meno con un mercato più grande. Anche questo, nella particolare ottica delle grandi aziende multinazionali è ovviamente un fattore di maggiore efficienza.

O, per fare un altro esempio, la prevalenza del “criterio del danno (secondo il quale tutti possono immettere prodotti sul mercato fino a che non si dimostra che fanno male) americano sul “principio di precauzione (secondo il quale è il produttore che deve dimostrate la sicurezza, ed in sua assenza si usa precauzione) europeo, introdotta senza precauzioni, porterebbe fuori mercato tante aziende oneste che hanno prodotti più costosi (ma innocui) a vantaggio di altre che poi bisognerebbe contestare sulla base di impegnative e lunghe procedure legali. Nel frattempo noi sopporteremmo i rischi (come gli americani).

Ci sono molte cose che possono essere obiettate: da una parte è discutibile che una forte concentrazione in poche aziende di interi settori (cioè la creazione di oligopoli) sia segno di efficienza complessiva, perché genera un sistema fragile, vulnerabile a potenziali shock e fortemente sbilanciato. Un sistema inoltre in cui si tende a generare monopoli e monopsoni in grado di influenzare i prezzi e di controllare il sistema di regolazione. Dall’altra la fase di transizione che vede normalmente molti perdenti e qualche vincente diversamente localizzato, vedrebbe la distruzione di interi settori ed il degrado di vasti territori che spesso lo restano. Ovviamente questo “effetto collaterale” in via di principio può essere risolto, con investimenti, formazione e sussidi, ma perché ciò possa accadere deve essere intanto previsto, discusso e programmato. In questo modo si vede che in una fase non certo breve ci saranno costi molto alti a carico delle pubbliche amministrazioni e dei bilanci. Nell’attuale condizione in cui le grandi aziende in pratica non pagano tasse ci saranno anche danni erariali dissimetrici.

E qui si torna al punto capitale del “sovrano”, o del “mandato”: la questione di chi e per chi firma, e del luogo in cui si negozia e come, è quella centrale. Se si compie tutto nel segreto e sotto copertura di vaghe ideologie liberoscambiste gli esiti saranno una riarticolazione in cui i perdenti sono abbandonati a se stessi senza loro colpa, se non di aver rispettato le regole che c’erano. Inoltre si avrà una drastica riduzione delle garanzie per i cittadini, e la rottura di mercati per concentrare in poche grandi aziende che eludono il fisco, grandi flussi finanziari, ed infine (ma non certo ultimo) danni erariali diretti ed indiretti per la gestione delle conseguenze.

La questione diventa di capire chi sopporta i danni collaterali. Nel quadro generale attualmente vigente in una Europa senza solidarietà questi sono a carico dei bilanci pubblici dei singoli stati, e senza ulteriori “flessibilità”. Porre invece la questione imporrebbe di leggere l’accordo commerciale nel quadro generale degli assetti fiscali.

L’enorme difficoltà di avviare questo discorso negato spiega molto bene la tentazione di raccontare la favolina del “vincono tutti” per non affrontarla.

Krugman aggiunge un’altra dimensione alla critica (in questo post ed in questo articolo sul Sole 24 Ore): “Alcuni documenti trapelati sembrano indicare che gli Stati Uniti stanno cercando di portare a casa tutele molto più estese per brevetti e copyright, in gran parte per venire incontro ai desiderata degli studios hollywoodiani e delle compagnie farmaceutiche, non degli esportatori convenzionali. Che dire al riguardo? Per esempio che non dobbiamo mai dimenticare che tutelare la proprietà intellettuale significa creare un monopolio, significa lasciare che i detentori di un brevetto o di un copyright riscuotano denaro per qualcosa (l’uso di conoscenza) che ha un costo marginale sociale pari a zero. In questo senso la tutela della proprietà intellettuale introduce una distorsione diretta che rende il mondo un po’ più povero”.

Ciò che è in gioco sono, in altre parole, le “rendite da monopolio” in un mondo in cui il vero fattore produttivo cruciale sta diventando la proprietà intellettuale e l’informazione.

L’importanza di questo tentativo è assolutamente cruciale, ciò che sta succedendo nel mondo, per dirlo con la necessaria sintesi, è una trasformazione dall’economia delle cose, o delle persone, a quella dell’informazione. Un sistema di produzione di valore nel quale la gran parte di esso è ormai contenuto nelle informazioni, nei software, … nelle “nuove fabbriche” di quella che si potrebbe chiamare una “non società dell’informazione”. A livello macro il fenomeno aggregato che emerge è quello che alcuni hanno chiamato “stagnazione secolare”, un ambiente tendenzialmente in deflazione, con prezzi in calo, disoccupazione alta e resistente, sempre maggiore distacco dal lavoro e suo impoverimento, tassi persistentemente bassi (nel disperato tentativo di reflazionare il sistema e sostenerne i valori), eccesso di debito e difficoltà a mantenere gli equilibri.

Questo fenomeno avviene in tutto il mondo, in modo ovviamente differenziato, e trova una delle maggiori applicazioni in Europa (in particolare nella parte debole).

Le cause sono come sempre molteplici, ma connesse con le radicali trasformazioni in corso delle modalità di produzione e di creazione di valore.

Visto dal lato dei grandi attori del sistema di produzione e scambio internazionali, che ispirano lo sforzo USA di ridefinire le piattaforma di scambio, il problema è di difesa dei margini di profitto, nel contesto di una competizione crescente per mercati sempre più piccoli. E una delle strategie essenziali è la creazione di monopoli, per poter scegliere i prezzi al posto del mercato. Questa tradizionale strategia diventa letteralmente vitale quando il prodotto nella sua maggior parte, o essenza, è composto di “beni” che non si consumano con l’uso, che non costa trasmettere, e che non sono facilmente escludibili come la conoscenza.

Questi beni, in altre parole, sono “a costo marginale nullo” e tendono quindi, dato che l’offerta è virtualmente infinita, a non avere prezzo. Il mercato, abbandonato a se stesso non riesce a dargli un prezzo.

Come giustamente sottolinea Krugman, questa operazione non va quindi a vantaggio generale dell’economia (perché se anche la riduzione di alcune barriere comportasse per alcuni paesi l’aumento delle esportazioni, per altri ciò significherebbe per semplice identità contabile quella delle importazioni), ma a vantaggio di chi ha solo questa strada per mantenere il suo potere di mercato: proibire la diffusione delle innovazioni e delle idee.

Alla fine a questo serve probabilmente il TTP ed il TTIP, a consentire lo sfruttamento monopolistico delle informazioni attraverso una completa e robusta estensione, nel tempo e nello spazio, dei diritti d’autore e una interpretazione quanto più estensiva possibile degli stessi.

Le due poste, messe in evidenza rispettivamente da Stiglitz (la caduta delle regolazioni introdotte nella ‘rivoluzione ambientalista’ degli anni sessanta e settanta a protezione dell’uomo e dell’ambiente) e da Krugman (la creazione di monopoli mondiali dell’informazione attraverso l’estensione dei diritti d’autore) non potrebbero essere più cruciali.

In effetti qui è letteralmente in gioco la possibilità di sostenere in esistenza il sistema capitalistico come lo conosciamo, e collateralmente probabilmente l’egemonia americana.

Perché tutto ciò non sia equivocato aggiungo che di per sé la discussione di un accordo, e di una “partership”, è una cosa buona. Ma deve essere una discussione razionale, condotta con onestà e sulla base delle migliori informazioni e dei migliori argomenti; calata in un contesto negoziale nel quale le parti siano chiare, i poteri manifesti e gli interessi visibili.

Una discussione che va condotta in pubblico. Sotto lo sguardo degli interessati.

Che siamo noi.

http://tempofertile.blogspot.it/2016/05/ttip-e-ttp-le-poste-in-gioco.html

La False Flag della tutela del consumatore tra ordoliberismo e TTIP

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1. Lo spunto per ri-attualizzare la questione, che troverete approfondita ne “La Costituzione nella palude”, lo fornisce questo recente commento di “Stopmonetaunica“:
“Se ho capito bene, quello che lei definisce consumismo senza senso è lo spostamento ordoliberista dai diritti del lavoro ai diritti del consumatore considerato come unico Dio. Se è questa la definizione che ne dà sono perfettamente d’accordo; è chiaro che i due diritti si trovano sovente in conflitto; banalmente: il consumatore vuole pagare di meno una merce, il lavoratore vuole essere pagato di più; la deflazione salariale adesso fa sì che sia anche una scelta obbligata da parte del consumatore il pagare meno le merci e nel contempo chiedere tutte le garanzie che queste merci siano prodotte con standard qualitativi alti; è quindi un circolo vizioso, un feedback negativo, che porta alla catastrofe sociale…”
2. Due piccole precisazioni: “consumismo senza senso” è una (felice) definizione non mia, ma di Rawls.
La “catastrofe sociale”, in realtà, dipende da quale osservatore di consideri. Un neo-liberista, cioè in particolare un ordoliberista, vedrebbe tale schema come un virtuoso ripristino non solo del magico sistema dei prezzi, ma anche delle indispensabili gerarchie (di fatto), che devono governare la società come “Legge” superiore alla “legislazione” degli “inutili” parlamenti (quando non siano espressione del sondaggismo controllato dagli “operatori economici razionali”).
 
Detto questo, il commento sintetizza correttamente il meccanismo già illustrato qui.
Ma vale la pena peraltro di sviluppare ulteriormente l’argomento
Il motivo è che, quando l’ordoliberismo è culturalmente radicato, come in €uropa, e in particolare in Germania, dove tutela del consumatore e ambientalismo decrescista sono di casa, le cose vanno poi così, quando si tratta di opporsi al TTIP…per le ragioni sbagliate (anche mettendo la questione “lavoro” nel mucchio delle altre):
Berlino, 250mila persone in corteo contro il Ttip. Paura per ogm, qualità della tutela ambientale e del lavoro
BERLINO
3. Ma diciamo sbagliate non in sè (nessuno, giustamente, vuole alimenti ad effetti dannosi per ecosistema e fisiologia umana), quanto perchè, presi da un dilagante condizionamento mediatico-culturale, si combatte l’effetto: cioè, il connaturale abbassamento degli standards di tutela dell’interesse pubblico in situazione di intensificato  liberoscambismo, essendo la teoria dei vantaggi comparati (cioè la giustificazione del free-trade) tanto più valida quanto più è limitato il ruolo dello Stato, possibilmente “minimo”.
Dunque, ragioni sbagliate perchè, opponendosi esclusivamente in base ad esse, si impedisce all’opinione di massa di scorgere la cause e quindi la creazione di una resistenza al TTIP realmente capace di segnalare, alla politica €uropea, il temuto costo di un ampio dissenso (elettorale) che verta sulla “vera posta in gioco” con il TTIP. Vale a dire, i rimasugli dello Stato sociale (sopravvissuti all’euro e alle sue esigenze di conservazione ad ogni costo) e dei servizi di pubblico interesse essenziale non privatizzati, ma da privatizzare in accelerazione.

4. Ecco dunque una espansa illustrazione di come agisce (sull’assetto socio-economico e istituzionale), l’enfasi monopolizzatrice della tutela del consumatore.

La premessa empirica è certo quella già sopra detta: il consumatore ha interesse a pagare meno e a ricevere un bene di effettiva qualità (migliore di “prima”, migliore di quella promessa da una diversa impresa del settore di mercato, comunque di qualità effettivamente corrispondente a quella “promossa” sul mercato). L’impresa ha interesse ad abbassare i costi per potersi garantire la quota di mercato al prezzo più basso offribile e/o con l’esclusiva di certe qualità distintive.
Il modo più diretto e logico di realizzare ciò è l’abbassamento dei costi: il più “facile” e consistente da abbattere è quello del lavoro. Ovviamente, “facile” a date certe condizioni istituzionali e politiche: che sono ben fornite dall’applicazione dei trattati europei, come dovremmo ormai ben sapere. Va peraltro notato che, in pratica, l’incidenza dei costi del management è non meno insidiosa, sulla formazione dei prezzi, perchè si è conquistata una rigidità notevole e una varietà di forme di compenso (diretto o indiretto) senza precedenti; o meglio si è guadagnata, oggi più che mai, un’elasticità esclusivamente verso l’alto.
5. Notare: si tratta della stessa elasticità unidirezionale che viene considerata imperdonabile nel settore pubblico. E viene propugnata come imperdonabile proprio dagli stessi protagonisti di questa escalation dei compensi nel “privato”.
Si tratta di una lotta che vede dunque prevalere una “casta”, molto privata, a scapito del valore condiviso dell’interesse collettivo realizzato da ogni struttura pubblica: funzionale a questa prevalenza, ormai conclamata, è la questione della corruzione, invariabilmente proposta come fatto del solo corrotto, dimenticando la categoria del corruttore…privato. Ma questo è un altro versante del discorso, che merita approfondimento in altra apposita sede).
Dunque, questa rigidità (verso il basso) dei propri enormi compensi, la casta degli executives se l’è conquistata proprio per il “merito” della riduzione dei costi e della connessa garanzia dei profitti, estesa agli azionisti di controllo, e quindi a scapito del lavoro.
Questo schema, che muove dall’idea salvifica dell’interesse del consumatore, è dunque un’autogaranzia dei compensi al management di vertice: il paradigma “mercato-concorrenza su prezzo/”qualità distintive”-consumatore” è comunque premiante in modo selettivo verso il basso, cioè che riduce il “premio” via via che si scende nel livello dell’apporto lavorativo, e quindi in modo regressivo rispetto alla “forza lavoro”.
6. Ciò che più importa è che un’apparente attenzione verso la “massa” (dei consumatori), determina, sul piano degli interessi economici prevalenti, la coincidenza della posizione degli azionisti di controllo con la tendenza degli executives ad accrescere con qualunque mezzo i propri compensi: in pratica, nei fatti, il sistema viene realizzato attraverso le periodiche offensive di tagli del personale, (anche mediante “esternalizzazione” con riassunzione dei dipendenti presso imprese esterne create ad hoc, con contratti di lavoro meno costosi, o mediante la intensa precarizzazione contrattuale dei dipendenti stessi, talora licenziati e riassunti con formule di part-time e collaborazione autonoma etc.).
Tutte queste “tecniche” di gestione del costo del lavoro sono chiamate pomposamente “riorganizzazione“.
Dunque, l’enfasi sulla figura del consumatore (spostato strategicamente sul rapporto qualità/prezzo), crea la (nei fatti forzata) coincidenza tra la tutela del consumatore stesso, considerato ipocritamente come l’appartenente ad una categoria indifferenziata, con il prevalente interesse del management e della proprietà finanziaria.
7. Ma avuto riguardo alla caratteristica del consumatore di costituire una “massa”, si impone di distinguere ciò che è invece dissimulato in questo schema: le differenti posizioni economiche, cioè reddituali e di capacità di spesa, in cui si suddividono di fatto, inevitabilmente, i consumatori, appartenenti alla massa indistinta di cui si propugna la indifferenziata tutela.
I consumatori non sono affatto indifferenziati: proprio per effetto della condizione simultanea di appartenenti alla forza lavoro, sottoposta al sistema della “riorganizzazione” del personale, perdita di potere d’acquisto e perdita del posto di lavoro, colpiscono la gran parte dei consumatori.
In pratica, l’effetto ultimo e “massificato”, è di relegare la parte debole del contratto di lavoro alla condizione diutente, naturalmente anch’esso debole, del credito al consumo, governato dalle condizioni generali di contratto imposte dall’onnipossente sistema finanziario, ovvero alla condizione di morte sociale di “non-consumatore“, in quanto disoccupato o working-poor.
8. La tutela del consumatore finisce così per coprire il danno che, alla principale componente di tale massa, i lavoratori, viene inflitto in nome del “mercato”: per conquistare il mercato, per rimanere sul mercato, nella competizione di volta in volta considerata in un certo settore, la forza lavoro diviene per definizione sacrificabile, in un’illusoria contrapposizione tra la forza lavoro di “settore”, o di una singola impresa, e la massa volutamente indifferenziata dei consumatori.
Ma la massa è, nei numeri della collettività sociale, percentualmente composta in modo maggioritario dalla stessa forza lavoro; e tale componente, sociologicamente, include anche il lavoro autonomo, in forme nuove e antiche, nella sua parte che non può volgere a proprio vantaggio il potere di fissazione dei prezzi.
Questi, infatti, sono in concreto stabiliti dagli operatori che hanno “potere di mercato“, cioè in posizione di oligopolio e/o monopolio, spesso artificiosamente distinti ma nella realtà a stento distinguibili (nel comportamento sul mercato e sul controllo dei costi).
9. L’evidente conseguenza di questa imposizione ideologica e, nell’ambito della costruzione europea, anche normativa, è che la tutela del consumatore, diviene una fortissima spinta alla giustificazione (dissimulata) del tipo di mercato del lavoro che consente l’operazione di bandiera, continua, di tutela del consumatore attraverso la (presunta e illimitata) competizione sui prezzi: quel tipo di mercato del lavoro-merce, o lavoro-costo, che consente di rifissare i prezzi, e rimodulare l’offerta di beni e servizi, essenzialmente in funzione riduttiva della quantità (disoccupazione+precarizzazione) e della remunerazione (salari reali) del fattore lavoro.
10. Sul piano morale, e politico (nel senso di ideologico generale), ciò consente la settorializzazione e la frammentazione della tutela del lavoratore, che diviene sacrificabile alla luce del “generico” interesse superiore del consumatore, nascondendo gli effetti reali del mercato del lavoro che così viene affermato come scelta eticamente ineludibile (There is no alternative: TINA).
Le ragioni della classe dirigente economica privata, assurgono così a priorità incontestabile proprio con il coinvolgimento di chi ne viene danneggiato nei suoi interessi, cioè i consumatori nella loro prevalente realtà sociologica: solo che tale interesse del vertice sociale privato scompare – in una frammentazione settoriale che indebolisce il lavoro fino a renderlo irrilevante-, nella stessa percezione dell’opinione di massa. E questo, grazie alla categoria artificiosa del mercato in “libera concorrenza” (che nasconde gli oligopoli transnazionali) e a quella del consumatore come suo (artificioso) principale beneficiario.

TTIP: la storia si ripete

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La crisi è democratica: colpisce la maggioranza. Le persone colpite, che appartengono agli ambiti più disparati, ogni tanto reagiscono, e lo fanno in base al proprio bagaglio culturale e alla propria esperienza di vita, com’è normale che sia, e ciascuno ponendo se stesso, quello che sa e quello che ha fatto come chiave di lettura privilegiata. È umano. Abbiamo così letture botaniche della crisi, letture filateliche della crisi, letture giuridiche della crisi, letture naturalistiche della crisi, e chi più ne ha più ne metta.

Da ognuno c’è qualcosa da imparare, ma rimane il fatto ineludibile che questa è una crisi economica, cioè quella cosa che si verifica quando per motivi che abbiamo illustrato tante volte la gente si trova senza soldi in tasca. Va anche ricordato che, come i marZiani dovrebbero sapere e come una lettura anche superficiale dei fatti dimostra (soprattutto in Italia), le dinamiche economiche reggono quelle politiche, che a valle reggono quelle giuridiche, ed è questo simpatico trenino, guidato dalla locomotiva “Economia”, che ci porta a spasso per le interminate praterie della SStoria.

Deriva da questo semplice (ma ineludibile) fatto il vantaggio comparato di questo blog. So che dispiace a molti, ma per fortuna piace a voi, e tanto mi basta.

Oggi voglio parlarvi, da economista, e più precisamente da economista applicato, del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Parlare di un trattato commerciale in chiave economica è, lo premetto, una lettura riduttiva, e lo sappiamo benissimo. Quello che inquieta del TTIP sono alcuni aspetti giuridici, in particolare giurisdizionali, come la possibilità, che abbiamo sentito evocare più volte, per le imprese multinazionali di chiamare in giudizio gli Stati sovrani (?) che non si attengano alle prescrizioni di liberalizzazione del mercato che il trattato promuove (e che si riferiscono, badate bene, non alle barriere tariffarie – cioè ai dazi – ormai in via di definitivo smantellamento nel quadro dell’OMC, ma a quelle non tariffarie, cioè alle normative ambientali, igieniche, di sicurezza alimentare e fisica, ecc.). Insomma, la famosa fiorentina all’ormone della quale sentite ogni tanto parlare sui giornali.

Rimarrà deluso Emilio Pica, che in un afflato socratico ci ha confessato di amare le donne androgine: nel meraviglioso mondo del TTIP tutti avranno una sesta di reggiseno, anche i maschietti.

Questo, naturalmente, per quanto riguarda la parte “trade“. Poi c’è quella investment, che lasceremo da parte.

Parlare di un trattato commerciale in chiave economica è quindi riduttivo, ma, come vedrete, indispensabile per cogliere pienamente il carattere truffaldino e antidemocratico dell’operazione in corso, un’operazione che, come solo un economista può aiutarvi a cogliere pienamente, è del tutto isomorfa a quella compiuta col Trattato di Maastricht. Vengono cioè vendute agli elettori come conquiste assodate risultati di studi metodologicamente dubbi, palesemente in conflitto di interessi, i cui risultati vengono proposti orchestrando un falso pluralismo, e dietro ai quali ci sono, ovviamente, i soliti noti.

Il prequel

Come andò con il Trattato di Maastricht lo sapete e comunque ve lo ricordo in l’Italia può farcela. Michael Emerson, Jean Pisani-Ferry e Daniel Gros, prezzolati dall’Unione Europea (perdonatemi: “pagati” non è il verbo giusto, anche perché sono morte delle persone, chiaro?), nel loro studio One market, one money, affermarono che “a major effect of EMU is that balance of payments constraints will disappear in the way they are experienced in international relations. Private markets will finance all viable borrowers, and saving and investment balances will no longer be constrained at the national level” (Emerson et al., 1990, p. 24).

Notate la raffinatezza della loro linea di attacco. Studiosi come Kaldor avevano da tempo ammonito che una moneta senza stato avrebbe disintegrato politicamente l’Europa, in particolare perché avrebbe creato squilibri che sarebbe stato necessario rifinanziare attraverso un budget federale. E allora i tre porcellini che si inventano? L’uovo di Colombo: loro sostenevano che non ci sarebbe mai stato bisogno, per il Nord, di rifinanziare il debito del Sud mediante trasferimenti, perché i mercati finanziari avrebbero prestato solo a chi fosse stato in grado di generare sufficiente reddito da ripagare i debiti (i “viable borrowers”, appunto). Ritenevano, cioè, i nostri amici, che non sarebbe stato necessario costituire uno Stato europeo, almeno nell’immediato, perché il mercato, che non può sbagliare, avrebbe pensato da sé a trasferire ove necessario i fondi, all’interno della nuova area finanziariamente integrata, senza bisogno di costruire un bilancio federale, e anzi affidando ai bilanci pubblici nazionali il compito di “respond to national and regional shocks through the mechanisms of social security and other policies” (ibidem). Non ci sarebbe quindi mai stata una crisi di debito estero all’interno dell’Unione Monetaria (tesi che alcuni economisti ancora oggi sostengono – vedi Boldrin – ma che è sconfessata dai fatti e dall’interpretazione della stessa Bce).

Infatti, che le cose non siano andate come Pisani-Ferry sosteneva (e Boldrin sostiene), ce lo ha spiegato Constâncio(2013) (ma anche De Grauwe 1998); prima che i tre porcellini si esprimessero, come sarebbero andate le cosa lo avevano chiarito Thirlwall 1991, e subito dopo Feldstein 1992, e decenni prima Kaldor 1971 e Meade 1957. Se siamo nei guai è proprio per colpa degli errori dei mercati finanziari privati, che hanno accumulato insostenibili debiti esteri all’interno dell’Eurozona. Quindi i tre porcellini mentivano sapendo di mentire, perché erano pagati per mentire.

Il percorso è sempre quello: da Pangloss (“tutto va per il meglio nel migliore dei mercati possibili”) a Eichmann (“non sapevo, eseguivo gli ordini”), con biglietto di andata e ritorno, perché in mancanza dei drastici rimedi adottati dal governo israeliano nel caso in specie gli illustri colleghi rimangono disponibili ad appoggiare il progetto successivo. Ma le “incognite” delle quali parla Pisani-Ferry tutto erano fuorché “incognite”: i rischi dell’Unione Monetaria erano stati denunciati dalla letteratura accademica e divulgati sulle più importanti testate finanziarie internazionali. Quindi “io non sapevo” meriterebbe il trattamento che ha avuto in altri tribunali, ma passons. Noi siamo per la non violenza, cioè per subire la violenza, non per esercitarla, perché gli altri, come vedete, tanti scrupoli purtroppo non se li fanno.

Il sequel

E oggi? Come vanno oggi le cose, con il TTIP? Nello stesso identico modo. Ci vengono proposte come verità oggettive i risultati di studi basati su una cieca fede nella capacità autoequilibrante del mercato, studi dei quali fin da ora è possibile sconfessare gli errori metodologici, ma, attenzione: gli studi vengono a valle di decisioni politiche già prese (come fu per One market, one money)…

Ci aiuta a orientarci un recente studio di Jeronim Capaldo, The Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership: European Disintegration, Unemployment and Instability.

Non lasciatevi fuorviare dal nome: nonostante la collocazione negli States, il Jeronim cui facciamo riferimento non è questo, è questo. Jere è romano de Roma, ma la sua mamma no, da cui la scelta un po’ esotica del nome di battesimo. Io ho studiato “Ragioneria I” con suo zio, sono stato in commissione ricerca alla Sapienza con sua madre, e molti di noi sono stati, credo, clienti della sua famiglia (com’è piccolo il mondo…). Lui, a sua volta, è stato mio “cliente” quando ero ricercatore in econometria alla Sapienza, nel lontano anno accademico 2001-2002, quando discusse una tesina sulla curva di Phillips (pensa un po’ te…).

Ora è finito qui, da dove è stato mandato qui a lavorare sul Global Policy Model. Mi illudo di essergli stato un po’ utile (o per lo meno lui la pensa così), e sono contento che ci sia un economista eterodosso infiltrato a Ginevra. Sì, perché Jere è relativamente “de sinistra”. Certo, questo lo ha portato a commettere un errore cruciale: ha diffuso in Italia i risultati del suo pregevole studio tramite un forum che nessuno legge (rank in Italy: 27804, secondo Alexa oggi), perché, come sapete, ha tradito. Lo Sbilifesto merita di essere consegnato all’oblio (e li esorto a considerare che, per quello che hanno fatto – soffocare scientemente il dibattito sulla moneta unica, quel dibattito che sono riuscito a portare dove sapete – l’oblio è molto meglio dell’alternativa), però lo studio di Jere no, e visto che uno di voi me l’ha segnalato, ne faccio una simpatica sintesi per i diversamente europei e diversamente economisti. Gli faremo così risalire più di 24000 posizioni in termini di visibilità: mi aspetto una cassetta di vino per questo, va da sé…

Dunque: il copione è sempre il solito. Esattamente come in One market, one money:

1) vengono proposti come vantaggi certi e determinanti dei vantaggi aleatori ed irrisori;

2) non vengono quantificati i potenziali svantaggi;

3) i metodi di analisi adottati si basano su una anacronistica fiducia nel mercato.

Le tre caratteristiche sono ovviamente connesse. Nel caso del TTIP si aggiunge ad esse una quarta, simpatica caratteristica:

4) l’impianto del progetto è intrinsecamente contraddittorio con il progetto europeo.

Vediamo un po’ perché.

Vantaggi irrisori

Cominciamo dal primo punto. Come ricorderete, One market, one money quantificava il riparmio di costi di transazione (commissioni su cambi) determinato dall’Unione monetaria in uno 0.4% del Pil, che si sarebbe evidentemente verificato una tantum. Voglio cioè dire che in un singolo anno l’abolizione di questi costi avrebbe fatto crescere il Pil dello 0.4% in più. Ma una volta aboliti i costi, i costi non ci sarebbero più stati (per definizione), e quindi già dall’anno successivo non si sarebbero avuti ulteriori effetti. Ve lo spiego in un altro modo: nell’anno dell’introduzione della moneta unica avremmo avuto 0.4 punti percentuali di crescita in più, negli anni successivi no. Chiaro?

Ovviamente Eichengreen ci si fece una bella risata sopra: “Ma come vi viene in mente di affrontare un progetto così incerto a fronte di un beneficio così irrisorio?”. Ma sse sa, signora mia, la ggente so tanto tanto ‘nvidiosi, gli americani c’hanno paura che je rubbamo er monopolio de ‘a moneta…

(discorsi da comare che oggi si sentono solo in certi seminari…)

Oggi non va tanto meglio. Lo studio leader per la valutazione dei benefici economici del TTIP è quello del CEPR (e come ti sbagli): Reducing Transatlantic Barriers for Trade and Investment. Come nota Jere, le conclusioni di questo studio sono presentate dalla Commissione come fatti, e allora, da bravi europei, facciamo così anche noi. La Table 2 dello studio di Jere riporta una valutazione comparativa dell’impatto sul Pil europeo nel 2027 (fra 13 anni). Il CEPR (che verosimilmente è quello che ha preso più soldi dalla Commissione) è il più ottimista. In caso di realizzazione di una “full FTA” (Free Trade Area, zona di libero scambio, con pieno abbattimento delle barriere interne, ma mantenimento di barriere tariffarie differenziate verso i paesi terzi – cioè gli Usa potrebbero adottare verso la Cina dazi diversi dall’Europa, in pratica), bene, in questo caso estremamente favorevole, il beneficio sarebbe immenso: lo 0.48% in più del Pil spalmato su 13 anni (cioè un aumento del tasso di crescita medio europeo dello 0.03% l’anno circa)!

Dice: ma che mme stai a pijà per culo? No, no, sto leggendo la Table 16 a p. 46 dello studio del CEPR. Quindi, pensate, se adottassimo il TTIP subito, con un colpo di bacchetta magica, l’anno prossimo la crescita europea sarebbe non del previsto 1.35%, ma, udite udite, dell’1.38%.

Sono i dettagli a fare la delizia dell’intenditore, e questi dettagli potete leggerli solo qui!

Ora, per carità, io capisco di non poter impedire alla maggior parte di voi di adottare toni barricaderi e piazzaleloretisti. Quindi ragliare “multinazzzzionali bbbbrutte, lobby cattive, attentato alla costituzzzzione”, per poi andare all’osteria a farsi un quartino di bianco, è, come dire, la soluzione naturale che si presenta a molti di voi, e, fra l’altro, è un approccio giustificatissimo: dietro questo autentico attentato alla nostra costituzione c’è in effetti il potere di lobbing delle multinazionali, che di fatto agiscono nel loro, certo non nel nostro interesse.

Ma che sorpresa, eh?

A me però, invece di questo segreto di Pulcinella (che strano! I ricchi e potenti comandano nel loro interesse e comprano i politici per farsi i fatti propri! Chi lo avrebbe mai detto?) sembra molto più sorprendente, divertente e dirompente andare a leggere sui documenti ufficiali in base a quali pretesi vantaggi questo attentato ai nostri diritti viene perpetrato. Ci stanno vendendo per una cosa che dal punto di vista statistico è del tutto insignificante. A questo punto chi vuole piazzaleloreteggiare alzerà i toni, sbraiterà, si raccoglierà sotto la bandiera della rivolta, cederà al demone del qualcosismo (“dobbiamo fare qualcosa”), malattia senile del qualunquismo.

Chi invece vuole vincere una battaglia di democrazia andrà avanti con la lettura e mi aiuterà a portare questo dibattito nelle sedi opportune (cosa che, occorre saperlo, non è gratis).

Sintesi: per la seconda volta ci stanno proponendo un progetto che comporta rischi notevoli promettendo un beneficio che perfino ricercatori in conflitto di interessi e distorti in favore del progetto (perché pagati da chi lo propugna) quantificano come irrisorio.

I potenziali svantaggi non vengono quantificati

Veniamo al secondo punto (che poi è connesso al terzo): i potenziali svantaggi non vengono quantificati (punto 2) anche e soprattutto perché l’impianto analitico utilizzato per verificare i vantaggi nega che esistano gli svantaggi, e lo fa sempre per il solito motivo: perché si basa su una cieca fiducia nel mercato (punto 3).

Del caso di One market, one money abbiamo già parlato: l’idea era che non ci sarebbero state crisi finanziarie perché i mercati finanziari non avrebbero potuto sbagliare.

Nel caso delle valutazioni del TTIP, la fiducia nel mercato si traduce nel fatto che il modello analitico utilizzato per valutare il progetto è un cosiddetto modello CGE (Computable General Equilibrium). Due fra i quattro studi che Jere analizza utilizzano proprio lo stesso modello CGE, il GTAP. Il punto è che questi modelli sono basati sul paradigma neoclassico, per cui l’offerta crea la propria domanda, ovvero, in altri termini:

1) tutti i mercati sono riportati perennemente in equilibrio (a meno di frizioni temporanee) dall’aggiustamento dei prezzi relativi, e quindi:

2) tutta la produzione offerta viene anche domandata, e quindi:

2.a) il Pil è determinato da quanto si produce, non da quanto si compra, e

2.b) non c’è disoccupazione.

Abbiamo parlato di alcune implicazioni di questo approccio qui. Ora, nel caso che ci interessa, Jere fa notare che il principale limite di questi modelli consiste nel meccanismo di adattamento alle modifiche normative da essi ipotizzato. Una liberalizzazione del commercio espone alla concorrenza internazionale settori finora protetti, e l’idea è quella darwinista che così i migliori sopravviveranno, e i peggiori andranno a fare altro. I settori più competitivi delle singole economie, quelli che hanno un vantaggio comparato, assorbiranno in tal modo le risorse che si rendono libere negli altri settori, con beneficio di tutti.

Ad esempio: se in Italia la siderurgica non è competitiva, ma l’agroalimentare sì, le acciaierie chiudono e gli operai vanno a lavorare la terra. Facile, no? Ma non ditelo agli operai dell’AST…

Ci sono però alcuni problemini evidenziati da Jere:

1) Intanto, perché questo non produca disoccupazione (e quindi spreco di risorse) a livello aggregato, occorre che i settori competitivi si espandano abbastanza da accogliere tutte le risorse (umane e altre) lasciate libere dai settori “sconfitti” dal mercato;

2) inoltre, le risorse di cui trattasi (che poi sono persone) devono essere molto poliedriche! Il modello presuppone, nelle parole di Jere, che un operaio di una catena di montaggio possa riciclarsi istantaneamente come dipendente di una software house (purché sia disposto ad accettare un salario sufficientemente basso).

3) Qui subentra un terzo problemino, che ora comincia ad essere chiaro a tutti. Il meccanismo di aggiustamento basato sulla flessibilità dei salari al ribasso conduce fatalmente a crisi di domanda. Ovviamente un modello nel quale si rappresenta solo l’offerta di questo aspetto non tiene conto. In un modello simile ci sarà sempre piena occupazione: sarà la flessibilità verso il basso del salario a indurre l’imprenditore ad assumere. Il problema, però, è che questo tipo di modello non considera il fatto che i “costi” che la riforma degli scambi internazionali spinge a tagliare (per diventare più competitivi) sono anche i redditi che sostengono la domanda aggregata di beni.

Ci sono poi problemini “minori” (come l’effetto Daverio-Zingales: maggiore esposizione a shock idiosincratici), ma quelli li lasciamo per dopo. Qui occupiamoci degli effetti sull’occupazione. Lo studio del CEPR è commovente: andate a pagina 71:

“It should be stressed that the model is a long-run model, where sources of employment and unemployment are “structural” (rather than cyclical). In this sense, changes in labour demand are captured through wage changes (in this case rising wages). As wages increase in the experiments, this means a rising demand for labour, so that under a flexible labour supply specification, employment would increase instead.”

Ovvero: la relazione fra domanda e occupazione (gli effetti ciclici) non ci interessa – il che, considerando che grazie all’euro la recessione durerà una decina di anni, qualche dubbio lo fa sorgere; le variazioni della domanda di lavoro sono segnalate solo da quelle del costo del lavoro: se i salari aumentano, significa che c’è più domanda di lavoro da parte delle imprese, e quindi più occupazione. E quindi? E quindi l’impatto sulla disoccupazione non viene nemmeno misurato, perché la disoccupazione c’è se la domanda di lavoro (da parte delle imprese) è inferiore all’offerta (da parte delle famiglie), e tutto quello che il modello misura non è quanti posti di lavoro verranno creati o distrutti dal TTIP, ma come la forza lavoro (che si suppone sarà tutta occupata) verrà riallocata da un settore all’altro, considerando separatamente gli effetti per gli “skilled” (qualificati) e i “non skilled” (non qualificati). Quindi, ad esempio, la Table 34 dello studio ci dice che nell’UE la quota di lavoratori “skilled” allocati nell’agricoltura aumenterà dello 0.07%, ma non ci dice quanti nuovi posti di lavoro ci saranno in agricoltura.

E va be’…

Qui i problemi sono due. Il primo ve l’ho detto: di posti di lavoro si preferisce non parlarne, et pour cause. Il meccanismo del modello, per i tre punti sopra esposti, può considerare solo effetti riallocativi, sotto l’ipotesi estremamente eroica che la riconversione di un operaio siderurgico in un dentista, o quella di un parrucchiere in un progettista aerospaziale sia istantanea e senza costi. L’altro aspetto è che la stima dei potenziali benefici in termini di salari (l’idea che i salari crescerebbero) è basata sull’ipotesi che la distribuzione del reddito rimanga costante. Come nota Jere, il CEPR prevede che nel 2027 la famiglia europea media guadagni 545 euro in più all’anno (45 euro in più al mese!) grazie al TTIP, ma questo, ovviamente, se la distribuzione del reddito rimane invariata, perché se invece la quota salari continua a scendere, il maggior Pil andrà ai profitti, non ai salari, e non tutte le famiglie beneficeranno in ugual misura dei mirabolanti incrementi di cui sopra (lo 0.48%).

La vera chicca

Ma concludiamo con la vera chicca. Gli effetti su Pil e redditi sono irrisori, perché sono irrisori, secondo lo stesso CEPR (cioè secondo la commissione) gli effetti sul commercio! Il commercio bilaterale crescerebbe tantissimissimo (quante volte abbiamo sentito questa storia), ma siccome crescerebbero sia le esportazioni che le importazioni, l’impatto netto non sarebbe così rilevante. Le esportazioni europee extra-UE nel 2027 in presenza di TTIP sarebbero del 5.9% superiori a quanto si avrebbe in assenza di TTIP. Il risultato di questa bella storia è che in effetti il TTIP disintegrerebbe l’Europa, nel senso di ridurre il commercio intra-zona (vedi la Table 24 dello studio CEPR). Insomma: con il TTIP gli europei commercerebbero di meno fra loro, e di più con gli Stati Uniti.

Ora, come ci siamo detti più volte, il beneficio di creare un’Unione economica è quello di avere un grande mercato che permetta di assorbire shock esterni: se gli Stati Uniti vanno per aria, la caduta della loro domanda viene compensata dal fatto che il grande mercato unico europeo in teoria sostiene l’acquisto dei beni europei. In pratica no, perché l’euro condanna a politiche di deflazione competitiva, come vi ho spiegato, ma almeno in teoria…

Con il TTIP questo beneficio teorico verrebbe ulteriormente compromesso: saremmo più legati agli Usa, e quindi più esposti agli shock che da essi provengono, pur essendo ugualmente privi di strumenti di politica fiscale, monetaria e valutaria per reagire ad essi. Come nota Jere, un esito simile non lascia tranquilli.

Io mi limito a ribadire quello che abbiamo più volte osservato: i difensori dell’euro e di questa Europa sono costretti, fatalmente, a stuprare la logica. Tutto quello che fanno contraddice platealmente tutto quello che dicono. Vogliono più Europa, e firmano dietro le nostre spalle un trattato che disintegrerà l’Europa prima commercialmente, e poi macroeconomicamente, esponendoci a qualsiasi errore di gestione dell’economia statunitense (e non è che ultimamente ce ne sian stati pochi…).

Una valutazione indipendente

Ovviamente non è necessario valutare l’impatto di un trattato commerciale con modelli di equilibrio generale. Si possono anche usare modelli basati sulla sintesi neoclassica, in cui si considerano le interazioni fra domanda e offerta (come avviene nel modello di a/simmetrie e nella maggior parte dei modelli utilizzati da banche centrali e enti di ricerca: ce l’ha ricordato il prof. Lippi a Pescara).

Nel suo working paper Jere fa questo lavoro, e lo fa, da bravo europeo, prendendo per buoni i risultati dello studio CEPR, cioè ipotizzando che il volume del commercio si sviluppi, in seguito al TTIP, secondo quanto prevedono gli studi prezzolati finanziati dalla Commissione. Cosa cambia, allora? Cambia il fatto che usando un modello keynesiano:

1) si considerano gli impatti della variazione del commercio sulla domanda aggregata;

2) si considerano gli effetti di trade diversion, cioè il fatto che la maggiore integrazione fra Europa e Stati Uniti ha effetti sulle relazioni con i paesi terzi;

3) si considerano gli impatti su domanda di lavoro, salari reali e occupazione.

E che succede, se si tiene conto di queste cose?

Lo vedete nella Table 4 dello studio di Jere. Per la maggior parte dei paesi europei il TTIP comporterebbe un peggioramento del saldo delle partite correnti, verosimilmente perché a causa della stagnazione della domanda interna (cioè dei bassi redditi) gli europei si rivolgerebbero sempre di più a beni a basso valore aggiunto, nei quali sono meno competitivi: meno golf di Cucinelli, più magliette di cotone cinesi (importate via Stati Uniti, va da sé).

Risultato: un peso ulteriore sulla bilancia dei pagamenti, che per i paesi del Nord sarebbe più grave che per noi – che già siamo stesi. Il tasso di crescita dell’economia d’altra parte diminuirebbe (com’è ovvio, dato il calo della domanda estera netta), e l’Europa sperimenterebbe una perdita di circa 600000 posti di lavoro. Non è una cosa enorme, considerando che la nostra popolazione attiva è di oltre 240 milioni, ma sarebbe meglio farne a meno, soprattutto perché i redditi di chi il lavoro lo conserverebbe diminuirebbero (il modello delle Nazioni Unite prevede in Italia una diminuzione di 661 euro per occupato, anziché un aumento di 545 per famiglia), e con essi la raccolta fiscale, con impatti negativi sulla sostenibilità dei conti pubblici.

Per carità, io sono di parte. Jere mi sta simpatico e l’Europa mi sta sui coglioni, però qui stiamo parlando di analisi condotte con un modello delle Nazioni Unite, e basato su ipotesi lievemente meno ideologiche di quelle adottate dall’oste Commissione Europea per valutare il vino TTIP.

Se a questo aggiungiamo il fatto che la storia che avremmo lavorato un giorno in meno ecc. ce la siamo già sentita dire, ecco che qualche motivo di allarme sorge, e un’analisi economica ci aiuta a motivarlo in termini oggettivi, quindi dialetticamente più efficaci del piazzaleloretismo e del window flagging.

Perché?

E allora chiediamoci perché? Perché i nostri governanti ci stanno consegnando a questo progetto che ha benefici irrisori, costi potenzialmente elevati, ed è contraddittorio con la retorica dell’integrazione europea.

E la risposta è semplice: perché l’Unione Economica e Monetaria, che ci viene venduta come il momento più alto di realizzazione della nostra identità europea, di un nostro comune progetto europeo, in realtà è il momento più infimo del nostro asservimento all’ideologia e agli interessi statunitensi. Ne ho parlato tante volte, non ci ritorno, ma quello che va capito è il senso complessivo dell’operazione, che secondo me è questo: gli Usa hanno bisogno di un mercato di sbocco perché, da potenza declinante, stanno perdendo potere di signoraggio sui mercati internazionali.

Gli sviluppi delle relazioni bilaterali fra i BRICS, e in particolare la dedollarizzazione degli scambi fra Cina e Russia, se dovessero generalizzarsi, significherebbero per gli Stati Uniti la fine del periodo dello “stampa (dollari) e compra (ovunque nel mondo)”. Il “privilegio esorbitante”, come lo chiamava Valery Giscard d’Estaing, verrebbe meno in un mondo nel quale il dollaro non fosse l’unico e solo strumento di regolazione delle transazioni sui mercati internazionali. A questo punto gli Stati Uniti non potrebbero permettersi più di essere in deficit strutturale netto verso l’estero. Puoi essere “acquirente di ultima istanza” se stampi a casa tua la moneta nella quale acquisti. Quando le cose non vanno più esattamente così, ti conviene avere una posizione equilibrata negli scambi con l’estero, altrimenti le cose si mettono male.

Il +1% di esportazioni nette che il TTIP potrebbe arrecare agli Stati Uniti andrebbe proprio nel senso di ridurre il loro deficit (a costo di un aumento del nostro). L’Europa diventerebbe la periferia, in una nuova edizione del romanzo di centro e periferia, da voi tanto amato, dove gli Usa, chiedendoci l’Ani, ci inonderebbero della loro liquidità (con la quale il resto del mondo progressivamente avrebbe iniziato a nettarsi le terga), allo scopo di farci acquistare i loro simpatici bistecconi transgenici.

Sappiamo tutti quali siano gli incentivi che le élite periferiche traggono dal vendere i propri subalterni alle élite del centro, quindi di cosa ci stupiamo? Direi di nulla: BAU! Non è un cane: vuol dire business as usual. E naturalmente qui sento i ragli dei piddini renziani (ormai tocca distinguere): “eh, ma l’euro ci aiuterebbe a difenderci!”.

No!

Noooo!

Nooooooooooooo!

Le cose stanno esattamente al contrario, e ancora una volta tutto questo ci è stato detto, e detto in faccia, e detto in sedi autorevoli. L’euro non ci aiuta a difenderci nemmeno un po’, e per due motivi ben evidenti. Il primo è che, come ormai sarebbe futile negare, è causa della nostra crisi, e quindi, banalmente, ci costringe ad affrontare in condizioni di debolezza qualsiasi negoziato internazionale. Il secondo è che nell’ottica statunitense l’euro è il primo passo verso la creazione di una moneta unica transatlantica, e questa non è una novità. Mundell ne parla da qualche anno, per capirci. E ora che sappiamo quali benefici ci abbia portato la moneta unica europea, e prima ancora quella italiana, siamo in grado di apprezzare quali e quanti benefici ci apporterebbe quella transatlantica.

Concludendo: nell’affrontare un tema così complesso sono io il primo a segnalarvi che l’ottica economica è necessariamente ristretta. Ma sarete d’accordo con me che aiuta a mettere a fuoco i probemi, no? Ricordatevi questo numero: +0.48% del Pil nel 2014. Va bene, non siamo Gesù Cristo: ma lui, almeno, fu venduto per trenta denari…

http://goofynomics.blogspot.it/2014/11/ttip-la-storia-si-ripete.html