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15 errori fatali del fondamentalismo finanziario

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Articolo tratto da Il pensiero economico dei giganti dell’economia eterodossa

Altrettanto fallaci sono le implicazioni secondo cui ciò che è possibile o auspicabile per il singolo individuo sia ugualmente possibile o auspicabile per tutti coloro che lo desidererebbero o per l’economia nel suo complesso.

E spesso l’analisi sembra essere basata sul presupposto che la produzione economica futura sia quasi interamente determinata da forze economiche inesorabili indipendenti dalle politiche del governo in modo che l’utilizzo di più risorse per uno scopo inevitabilmente le sottrae ad un altro. Questo potrebbe essere giustificabile in un’economia della piena occupazione, o potrebbe essere avvalorato in un certo senso postulando che il Consiglio della Federal Reserve voglia perseverare e riuscire in una politica di contenimento della disoccupazione strettamente ad un tasso fisso di “non accelerazione dell’inflazione” o tasso “naturale”. Ma nelle condizioni attuali questo risultato non è né probabile né auspicabile.

Alcuni degli errori che derivano da tali modi di pensare sono affrontati di seguito. Nel loro insieme la loro accettazione sta portando a politiche che nella migliore delle ipotesi ci stanno tenendo in stagnazione economica con tassi di disoccupazione generale bloccati in un range del 5-6 per cento. Questo è già abbastanza grave semplicemente in termini di perdita del nostro potenziale di produzione dal 10% al 15%, anche se condiviso equamente, ma quando si traduce in un tasso di disoccupazione del 10%, 20%, e 40% tra i gruppi svantaggiati diventano seri i grandi danni in termini di povertà, disgregazione familiare, dispersione scolastica e abbandono, illegittimità, uso di droghe e criminalità. E se le politiche in questione dovessero essere pienamente realizzate in termini di un “pareggio di bilancio”, potremmo anche cadere in una grave depressione.

 

FALLACIA 1

I deficit sono considerati come una rappresentazione di spesa dissoluta peccaminosa a scapito delle generazioni future che saranno lasciate con una quantità minore di capitale investito. Questo errore sembra derivare da una falsa analogia con i prestiti da parte dei privati.

La realtà attuale è quasi l’esatto contrario. I deficit aggiungono reddito netto disponibile per le persone fisiche nella misura in cui gli esborsi governativi, che costituiscono reddito per i beneficiari, superano quelli sottratti dal reddito disponibile da imposte, tasse e altri oneri. Questo potere d’acquisto aggiuntivo, se speso, offre ai mercati una domanda aggiuntiva, inducendo i produttori ad investire in capacità produttiva addizionale che farà parte del patrimonio reale lasciato al futuro. Questo si aggiunge a qualsiasi investimento pubblico fatto in infrastrutture, istruzione, ricerca, e simili. I deficit grandi, sufficienti a recuperare il risparmio da un prodotto interno lordo in crescita (PIL) superiore a quello che può essere recuperato dalla ricerca del profitto in investimenti privati, non sono un peccato per l’economica, ma una necessità economica. Disavanzi in eccesso crescenti conseguenti alla crescita massima realizzabile nella produzione reale potrebbero infatti causare problemi, ma in nessuna parte siamo vicini a quel livello.

Anche l’analogia stessa è viziata. Se General Motors, AT&T e le singole famiglie avessero avuto necessità di equilibrare i loro bilanci nel modo in cui essa è stata applicata al governo federale non ci sarebbero obbligazioni societarie, mutui, prestiti bancari e molte meno automobili, telefoni, e case.

 

FALLACIA 2

Si afferma che è necessario sollecitare o incentivare gli individui a cercare di risparmiare di più per stimolare gli investimenti e la crescita economica. Ciò sembra derivare dal presupposto di un prodotto aggregato immutato in modo tale che ciò che non viene utilizzato per il consumo sarà necessariamente e automaticamente dedicato alla formazione del capitale.

In realtà, anche in questo caso, la verità è l’esatto contrario. In un’economia monetaria, per la maggior parte degli individui la decisione di cercare di risparmiare di più significa spendere meno; minore spesa di un risparmiatore significa minore reddito e meno risparmio per i venditori e produttori e il risparmio aggregato non è aumentato ma diminuito. A loro volta i venditori riducono i loro acquisti e il reddito nazionale si riduce e con esso il risparmio nazionale. Un dato individuo può infatti riuscire ad aumentare il proprio risparmio ma solo a spese del reddito e il risparmio di altri individui.

 

FALLACIA 3

Il debito pubblico dovrebbe “spiazzare” gli investimenti privati.

La realtà attuale è che, al contrario, la spesa dei fondi presi in prestito (a differenza della spesa delle entrate fiscali) genera reddito aggiuntivo disponibile, aumenta la domanda di prodotti del settore privato e rende gli investimenti privati più redditizi. Finché ci sono un sacco di risorse inutilizzate in giro e le autorità monetarie si comportano in maniera sensibile (invece di cercare di contrastare l’effetto presumibilmente inflazionistico del deficit), quelli con una prospettiva di investimento redditizio possono essere abilitati ad ottenere il finanziamenti. In queste circostanze, ogni dollaro aggiuntivo di deficit nel medio-lungo termine produce due o più dollari supplementari di investimenti privati. Il capitale creato è un incremento di ricchezza per qualcuno e il risparmio “ipso facto” di qualcun altro. “L’offerta che crea la propria domanda” non funziona più non appena alcuni dei redditi generati dall’offerta vengono risparmiati, ma gli investimenti creano risparmi di pari importo, e anche oltre. Qualsiasi spiazzamento che si potrebbe verificare sarebbe il risultato, non della sottostante realtà economica, ma di inappropriate reazioni restrittive da parte dell’autorità monetaria come risposta al deficit.

 

FALLACIA 4

L’inflazione è chiamata la “tassa più crudele”. La percezione sembra essere che se solo la crescita dei prezzi si potesse fermare, il proprio reddito potrebbe migliorare oltre, senza tener conto delle conseguenze sul reddito.

La realtà attuale: l’elemento fiscale nell’inflazione attesa in termini di guadagno per il governo e perdite per i detentori di moneta e titoli di Stato si limita alla riduzione del valore in termini reali della moneta non fruttifera, (equivalente all’aumento del tasso di interesse di risparmio sui prestiti senza interessi rispetto a quello che sarebbe stato senza inflazione), più il guadagno dall’incremento dell’inflazione oltre ciò che è stato previsto nel momento in cui si è stabilito il tasso di interesse sul debito. D’altra parte, una riduzione del tasso di inflazione al di sotto di quello previsto in precedenza si tradurrebbe in una sovvenzione per i titolari di debito pubblico a lungo termine e un corrispondente aumento dell’impatto reale del debito sul fisco .

Nei regimi precedenti in cui le normative vietavano l’accredito degli interessi sui depositi a vista, l’utile da signoraggio su questi saldi che veniva rafforzato dall’inflazione andava alle banche, cosa che rifletteva la perdita dei depositanti in termini di potere d’acquisto, con la conseguenza di indurre alcuni vantaggi per i clienti in termini di servizi senza costi. In un’economia in cui la maggior parte delle transazioni avvengono in termini di carte di credito e conti bancari rispetto al quale l’interesse può essere addebitato o accreditato, l’onere sarà insignificante per la maggior parte degli individui, limitatamente alla perdita di interesse sulla moneta in circolazione. La maggior parte del guadagno per il governo deriverà da quelli che utilizzano grandi quantità di valuta per l’evasione fiscale o per l’esercizio delle loro attività illecite. Ulteriori oneri per quei pochi che tengono il denaro sotto il materasso o in vasi di biscotto.

La principale problematica dell’inflazione, infatti, non deriva dagli effetti dell’inflazione stessa, ma dalla disoccupazione prodotta dai tentativi inappropriati per controllarla. In realtà, l’accelerazione imprevista di inflazione può ridurre il disavanzo reale relativo al disavanzo nominale riducendo il valore reale del debito a lungo termine. Se viene perseguita una politica di contenimento del deficit di bilancio nominale questo è suscettibile di provocare una continua disoccupazione eccessiva a causa della riduzione della domanda effettiva. La risposta non è quella di diminuire il disavanzo nominale per controllare l’inflazione con un aumento della disoccupazione, ma piuttosto di aumentare il disavanzo nominale per mantenere il deficit reale, controllando l’inflazione, se necessario, con mezzi diretti che non comportano un aumento della disoccupazione.

 

Fallacia 5

“Una tendenza cronica verso l’inflazione è un riflesso del vivere al di sopra dei propri mezzi”. Alfred Kahn, citato in Cornell ’93, numero estivo.

Realtà: l’unica volta che si può dire di aver davvero vissuto al di sopra dei nostri mezzi è stato in tempo di guerra, quando il capitale era stato distrutto e sotto dimensionato. Non abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi nemmeno in tempo di pace sin dal 1926, quando si stima che la disoccupazione, secondo la definizione di oggi, sia scesa a circa l’1,5 %. Non si è raggiunto questo livello se non al culmine della seconda guerra mondiale.

L’inflazione si verifica quando i venditori aumentano i prezzi; possono farlo con profitto quando le forze della concorrenza sono indebolite dalla differenziazione dei prodotti, reale e fittizia, dalla pubblicità ingannevole, dall’offuscamento di espedienti di vendita e di pacchetti, fusioni e acquisizioni, e dalla crescente importanza dei servizi ausiliari, dai segreti commerciali, dai brevetti, dai diritti d’autore, dalle economie di scala, dalle spese generali e dai costi di avviamento. L’inflazione può e deve verificarsi nel mezzo di risorse sottoutilizzate, e non dovrebbe verificarsi anche nel caso in cui consumiamo il nostro capitale attraverso la mancata manutenzione e sostituzione, consumando più di quanto produciamo.

 

FALLACIA 6

Si ritiene necessario mantenere la disoccupazione a un livello “di non accelerazione dell’inflazione” (“NAIRU”) nell’intervallo compreso tra il 4 % e il 6 % se l’inflazione è da mantenere al di sotto di un aumento inaccettabile.

Attualmente il tasso di disoccupazione misurato ufficialmente è sceso al 5,1 %, mentre il Congressional Budget Office (CBO) ha stabilito il NAIRU per il 1964 al 6,0 %, dopo aver oscillato tra il 5,5 e il 6,3 dal 1958. Le recenti riserve CBO stabilivano una disoccupazione stabile al 6,0 % fino al 2005, con l’inflazione dell’indice dei prezzi al consumo urbani abbastanza costante a circa il 3,0 % (Economic and Budget Outlook, maggio 1996, pp XV, XVI, 2, 3).

Questa può essere una previsione piuttosto ottimistica dei risultati che si possono attendere in base alle tendenze attuali, ma come obiettivo è semplicemente intollerabile. Mentre anche il 5% di disoccupazione potrebbe essere appena accettabile se ciò indica un periodo obbligatorio extra di due settimane di congedo non retribuito all’anno per tutti, è del tutto inaccettabile quando significa 10%, 20% e 40% di disoccupazione tra i gruppi svantaggiati, con gravi conseguenze in termini di povertà, perdita di casa, rotture familiari , tossicodipendenze e criminalità. Il malessere che pervade le nostre città può essere attribuibile in larga misura al fatto che per la prima volta nella nostra storia, un’intera generazione e oltre è cresciuta senza provare la ragionevole piena occupazione, nemmeno per breve tempo. Al contrario, mentre la maggior parte degli altri paesi industrializzati stanno vivendo più alti tassi di disoccupazione rispetto agli Stati Uniti, hanno quasi tutti avuto periodi relativamente recenti di quasi piena occupazione. Programmi di sostegno contro la disoccupazione e altri programmi di “welfare” sono stati anche molto più generosi in modo che le conseguenze sociologiche sono state molto meno demoralizzanti.

Il presupposto di fondo che ci sia un NAIRU esogeno che impone un vincolo ineludibile sulle possibilità macroeconomiche è aperto a gravi questioni per ragioni sia storiche che analitiche. Storicamente, gli Stati Uniti hanno registrato un tasso di disoccupazione dell’1,8% nel 1926 nel suo complesso, con un livello dei prezzi in calo, semmai. La Germania dell’Ovest ha goduto di un tasso di disoccupazione di circa lo 0,6% nel corso degli anni intorno al 1960 e la maggior parte dei paesi sviluppati hanno goduto di episodi di disoccupazione inferiori al 2% senza gravi inflazioni. Così un NAIRU, se esiste, deve essere considerato come molto variabile nel tempo e nel luogo. Non è chiaro se le stime del NAIRU non siano state contaminate dal fallimento nello stabilire un possibile impatto dell’inflazione sulla disoccupazione oppure l’impatto della disoccupazione sull’inflazione. Una interpretazione marxista della insistenza su un NAIRU potrebbe essere come cavallo di troia per arruolare il timore di inflazione per giustificare il mantenimento di un “esercito di riserva di disoccupati”, presumibilmente per evitare che i salari avviino una “spirale prezzi-salari”. Nessuno sente mai di una “spirale affitto-prezzo”, o una “spirale di interesse-prezzo”, anche se questi costi sono anche da considerare nella determinazione dei prezzi. In effetti, quando la FRB alza i tassi di interesse nel tentativo di scongiurare l’inflazione, l’aumento dei costi di interesse per i commercianti potrebbe innescare un piccolo aumento di prezzo.

Analiticamente, sarebbe più razionale aspettarsi un tasso massimo di riduzione della disoccupazione che non accelera l’inflazione ( NIARRU ), tale che se venisse fatto un tentativo per procedere più rapidamente ad un maggiore riciclo di eccesso di risparmio in potere d’acquisto attraverso i deficit di governo, i prezzi comincerebbero a salire più rapidamente di quanto fosse stato generalmente previsto. Ciò si potrebbe verificare a causa dell’incapacità dell’offerta di tenere il passo con l’aumento della domanda, dando luogo a carenze e la dissipando una parte della maggiore domanda nei più rapidi aumenti dei prezzi. Questo NIARRU potrebbe essere determinato dai limiti dei tassi a cui il lavoro può essere assunto e messo al lavoro per soddisfare l’aumento previsto della domanda, e, forse, dai ritardi nella comprensione che la domanda aumenterà, e anche dal creare nuove strutture produttive, installarle e portarle a regime. L’ultimo vincolo tecnologico per impiegare i disoccupati più rapidamente nel settore privato può risiedere in una capacità limitata nei settori dei beni strumentali quali l’edilizia, nel cemento e nelle macchine utensili.

In ogni caso molto dipenderà dal grado di fiducia che può essere generato nell’aumento proposto nella domanda. Potrebbe essere saggio iniziare lentamente, con una riduzione del tasso di disoccupazione che potrebbe essere dello 0,5% il primo anno e aumentarlo fino all’1% all’anno, man mano che si guadagna la fiducia. Forse il tasso di crescita dovrebbe poi essere ridotto un po’ man mano che ci si avvicina alla piena occupazione, lasciando il tempo necessario di abbinare ai lavoratori i posti vacanti data la crescente difficoltà. E’ soprattutto nelle fasi più avanzate dell’approccio alla piena occupazione che la formazione e il miglioramento dell’organizzazione del mercato del lavoro può diventare necessaria. A fronte di una politica di mantenimento di un NAIRU fisso, una “workfare” aiuta a riqualificare ed assistere l’insieme dei clienti del welfare nel crudele gioco delle sedie musicali.

Tale NIARRU rischia di rivelarsi alquanto volatile e difficile da prevedere e in ogni caso potrebbe essere opportuno spingere per la piena occupazione un po’ più rapidamente di quanto sarebbe consentito da un NIARRU inalterato. Ciò richiederebbe l’introduzione di alcuni nuovi strumenti di controllo dell’inflazione che non richiedono disoccupazione per poter essere efficaci. Anzi, se vogliamo controllare le tre principali dimensioni macroeconomiche dell’economia, vale a dire il tasso di inflazione, il tasso di disoccupazione e il tasso di crescita, è necessario un terzo controllo che ragionevolmente non collimerà nei suoi effetti con quelli di una politica fiscale che opera attraverso la generazione del reddito disponibile da un lato e la politica monetaria che opera attraverso i tassi di interesse dall’altro.

Ciò che può essere necessario è un metodo per controllare direttamente l’inflazione che non interferisca con le regolazioni del libero mercato dei prezzi relativi o che non si affidi alla disoccupazione per tenere sotto controllo l’inflazione. Senza un tale controllo, i cambiamenti imprevisti del tasso di inflazione, sia in positivo che in negativo, continueranno ad affliggere l’economia e rendere difficile la pianificazione per gli investimenti. Cercare di controllare l’economia nelle tre principali dimensioni macroeconomiche con solo due strumenti è come cercare di volare con un aereo solo con elevatore e timone, ma senza alettoni; con tempo atmosferico calmo e con un diedro sufficiente si può gestire l’aereo se i giri sono fatti molto cautamente, ma cercare di atterrare controvento è come produrre un incidente.

Una terza possibile misura di controllo sarebbe un sistema di diritti negoziabili di valore aggiunto, (o “gross markups”) emessi da imprese che godono di responsabilità limitata, proporzionali ai fattori primi impiegati, come il lavoro e il capitale, con un valore nominale complessivo pari al valore di mercato complessivo della produzione ad un livello generale dei prezzi programmato. Le imprese che incontrano un mercato particolarmente favorevole potrebbero realizzare un livello più alto di markup rispetto al normale solo acquistando diritti da aziende posizionate meno favorevolmente. Il valore di mercato dei diritti varierebbe automaticamente in modo da costituire la giusta pressione al ribasso sui margini di profitto per produrre il livello generale dei prezzi desiderato. Una adeguata sanzione dovrebbe essere riscossa su qualsiasi impresa che abbia avuto un valore aggiunto superiore a quello dei titoli posseduti.

In ogni caso è importante ricordare che le divergenze nei tassi di inflazione verso l’alto o verso il basso, da quanto previsto in precedenza, producono solo una redistribuzione arbitraria di un dato prodotto totale, pari nella peggiore delle ipotesi a legittimare l’appropriazione indebita, a meno che in effetti queste imprevedibili variazioni siano così estreme e rapide da distruggere l’utilità della moneta come mezzo di scambio. La disoccupazione, dall’altro, riduce il prodotto totale da ripartire; nella migliore delle ipotesi è equivalente al vandalismo, e quando contribuisce al crimine, diventa l’equivalente di incendio doloso omicida. Negli Stati Uniti la diffusa disponibilità di sportelli automatici nei supermercati e in altri posti avrebbe reso il “costo delle scarpe in pelle” da un tasso di inflazione alto ma prevedibile ad abbastanza trascurabile.

 

FALLACIA 7

Molti professano la fede che si basa sul fatto che se solo i governi dovessero smettere di intromettersi ed equilibrare i propri bilanci, i liberi mercati dei capitali dovrebbero portare prosperità nei loro periodi migliori, eventualmente con l’aiuto del “suono” della politica monetaria. Si presume che ci sia un meccanismo di mercato attraverso il quale i tassi di interesse si adattano prontamente e automaticamente per equiparare il risparmio e gli investimenti previsti con una modalità analoga al mercato con la quale il prezzo delle patate equilibra domanda e offerta. In realtà tale meccanismo di mercato non esiste; se un equilibrio di prosperità deve essere raggiunto è necessario un intervento deliberato da parte delle autorità monetarie.

Nel periodo di massimo splendore della rivoluzione industriale probabilmente sarebbe stato possibile per le autorità monetarie agire per regolare i tassi di interesse per equiparare il risparmio e gli investimenti aggregati previsti con i livelli di crescita del PIL in modo tale da produrre e mantenere la piena occupazione. In generale, tuttavia, le autorità monetarie non sono riuscite a riconoscere il bisogno di tali azioni e invece hanno perseguito obiettivi come come il mantenimento del gold standard, o il valore della propria valuta in termini di valuta estera, o il valore delle attività finanziarie nei mercati dei capitali. Il risultato è stato che di solito gli adeguamenti agli shock hanno avuto luogo lentamente e dolorosamente attraverso la disoccupazione e il ciclo economico.

Realtà attuale: è passato molto tempo, però, da quando anche i tassi di interesse più bassi gestibili dai mercati dei capitali erano in grado di stimolare la formazione di sufficiente capitale netto motivato dai profitti per assorbire e riciclare nel reddito, durante ogni lungo periodo, i risparmi che gli individui desiderano mettere da parte dal livello di prosperità del reddito personale disponibile. Le tendenze della tecnologia, dei modelli di domanda e della demografia hanno creato un divario tra gli importi per i quali il settore privato può trovare proficuo l’investimento in strutture produttive e le sempre più grandi quantità di individui cercano di accumulare per la pensione e per altri scopi. Questo divario è diventato troppo grande per essere compensato attraverso la regolazione del mercato monetario o dei capitali.

Da un lato la prevalenza di innovazioni nel risparmio (di capitale), riscontrabili in forma estrema nel settore delle telecomunicazioni e dell’elettronica, l’alto tasso di obsolescenza e gli ammortamenti, provocando un forte calo del valore del vecchio capitale che deve essere sostituito con nuovi investimenti lordi prima che possa essere registrato qualsiasi incremento netto nel valore complessivo del mercato dei capitali, assieme a cambiamenti dall’industria pesante all’industria leggera ai servizi, hanno fortemente limitato la capacità del settore privato di trovare collocazione redditizia per i nuovi fondi di capitale. Negli ultimi 50 anni il rapporto tra il valore di mercato del capitale privato rispetto al PIL è rimasto, negli Stati Uniti, abbastanza costante nell’arco di 25 mesi.

D’altro canto, le aspirazioni per le attività detenute per finanziare i più lunghi pensionamenti dovuti agli standard di vita più elevati sono fortemente aumentati. Allo stesso tempo, l’aumento della concentrazione della distribuzione del reddito ha aumentato la quota di quelli con un’alta propensione al risparmio per altri scopi, come ad esempio l’acquisizione di azioni con cui puntare a grandi quote dei giochi finanziari, la costruzione di imperi industriali, le acquisizione di peso gestionale o politico, la creazione di una dinastia, o le dotazioni di filantropie. Questo ha ulteriormente contribuito ad un trend di crescita della domanda di attività da parte degli individui in rapporto al PIL.

Il risultato è stato che il divario tra l’offerta privata e la domanda privata di beni è venuta a costituire una quota crescente del PIL. Questa lacuna è stata anche ampliata dall’attuale disavanzo commerciale estero, che corrisponde ad una diminuzione dello stock di attività interne a disposizione degli investitori nazionali. Per un’economia essere bilanciata ad un dato livello di PIL richiede la fornitura di ulteriori attività sotto forma sia di debito pubblico che di investimenti netti esteri per colmare questa lacuna crescente. Il divario è ora provvisoriamente e approssimativamente stimato essere, per gli Stati Uniti, pari a circa 13 mesi di PIL. Ci sono indicazioni che per il prossimo futuro questo rapporto tenderà a salire anziché scendere. Questo è in aggiunta a qualsiasi ruolo svolgano i diritti di Social Security e di Medicare nel fornire un livello minimo di sicurezza per la vecchiaia.

In assenza di cambiamenti nel flusso di investimenti esteri netti, sarà necessario di un recupero di reddito da parte del governo attraverso un deficit corrente un po’ elevato dell’auspicata crescita del PIL nominale per mantenere l’economia in equilibrio. Limitare i deficit corrisponderebbe a soffocare la crescita. Un pareggio di bilancio, infatti, tenderebbe a fermare del tutto la crescita del PIL nominale, e in presenza di inflazione porterebbe ad un calo del PIL reale e un corrispondente aumento della disoccupazione.

Dipendendo in parte da ciò che potrebbe accadere a livello statale e locale, i programmi attuali di riduzione progressiva del deficit federale a zero nel corso dei prossimi sette anni metterebbe in effetti un tappo sul debito pubblico totale a circa 9 mila miliardi di dollari, il che implica che il PIL convergerebbe, in assenza di variazioni negli investimenti netti esteri, verso un livello di circa 8-9 mila miliardi, oltre alle fluttuazioni cicliche di breve periodo. Ciò a fronte di un PIL di pieno impiego dopo sette anni di inflazione al 3% di circa 13 mila miliardi di dollari. Il PIL del pareggio di bilancio di circa il 65% di questo corrisponderebbe ad un livello segnalato di disoccupazione del 15% o più, in aggiunta alla disoccupazione non dichiarata. Successivamente, se le costrizioni delle modifiche del pareggio di bilancio dovessero essere rispettate, la disoccupazione continuerebbe ad aumentare. Prima che questo possa accadere, però, qualche presa di coscienza rispetto alla realtà sarebbe probabilmente presa in considerazione, anche se non fino a quando non si sarebbe verificata una grande quantità di sofferenza inutile.

 

FALLACIA 8

Se i deficit continuano il pagamento del debito sommergerebbe il fisco.

Prospettiva reale: mentre gli spettatori allarmati sono appassionati di proiezioni da horror story in cui il debito pro capite diventerebbe intollerabilmente gravoso, il pagamento del debito assorbirebbe l’intero gettito delle imposte sul reddito, o la fiducia si perderebbe nella capacità o volontà del governo di imporre le tasse necessarie in modo che le obbligazioni non possano essere commercializzate a condizioni ragionevoli, scenari ragionevoli proteggono da un effetto trascurabile o addirittura favorevole sul fisco. Se la piena occupazione è mantenuta in modo che il PIL nominale continui a crescere diciamo al 6%, costituito da circa il 3% di inflazione e il 3% di crescita reale, il debito equilibrante dovrebbe crescere del 6% o forse ad un tasso leggermente più alto; se il tasso di interesse nominale fosse dell’8% , il 6% di questo sarebbe finanziato dalla crescita necessaria del debito, lasciando solo il 2 % da ricercare fuori del bilancio in corso. Le imposte sui redditi sull’aumento dei pagamenti per interessi compenserebbe molto di questo, e i risparmi di una disoccupazione ridotta, di prestazioni assicurative e di costi sociali coprirebbero molto più del resto, oltre ad un notevole aumento delle entrate fiscali dovute ad un’economia più prospera. Anche se gran parte di questi guadagni sarebbero fruiti dai governi statali e locali, piuttosto che dal governo federale, questo potrebbe essere regolato attraverso dei cambiamenti nei trasferimenti intergovernativi. 15.000 miliardi di debito saranno molto più facilmente affrontati con un’economia di piena occupazione, con esigenze notevolmente ridotte per i sussidi di disoccupazione e welfare, che 5.000 miliardi di debito per un’economia in depressione e con le proprie dotazioni in rovina. Semplicemente non è un problema.

 

FALLACIA 9

Si sostiene che l’effetto negativo considerando il peso insostenibile del debito aumentato dovrebbe annullare l’effetto di stimolo del deficit. Questa travolgente affermazione dipende da un errore di analisi della situazione nel dettaglio.

Realtà analitica: questa tesi di “equivalenza ricardiana”, mentre viene attribuita a Ricardo, non può, in fondo, essere sottoscritta da lui. In ogni caso la sua validità dipende in modo cruciale dal sistema di tassazione che dovrebbe essere utilizzato per finanziare il pagamento del debito.

Ad un estremo, in una economia Georgiana facendo uso esclusivo di una “tassa singola” sul valore dei terreni, in cui ci si aspetta che i valori dei terreni si evolvano proporzionalmente nel tempo, tutti i debiti diventano a tutti gli effetti un mutuo collettivo sugli appezzamenti di terra. Qualsiasi aumento del debito pubblico per compensare la riduzione fiscale deprime il valore di mercato dei terreni per un importo uguale; la ricchezza aggregata degli individui non viene influenzata; l’equivalenza ricardiana è completa e la politica fiscale pura è impotente. Un debito più grande può ancora essere desiderabile per approfittare dei tassi di interesse più bassi eventualmente disponibili sul debito pubblico e quindi sui mutui privati, e in effetti nel dotare le proprietà di un mutuo built-in assumibile che faciliti il finanziamento dei trasferimenti. E ci potrebbe essere ancora una possibilità per stimolare l’economia attraverso le spese fiscali finanziate dalle tasse che ridistribuiscono i redditi verso quelli con una maggiore propensione al consumo.

In un altro scenario, se l’imposta principale è unica su tutti gli immobili, com’è normale nella finanza locale americana, l’effetto è drasticamente diverso. In questo caso, qualsiasi investitore che costruisce un edificio assume in tal modo, almeno per il periodo della costruzione, una quota del debito pubblico, soggetto ad una parte di questo onere che potrebbe essere rilevato da ulteriori costruzioni. Non solo questo scoraggia le costruzioni, ma se l’ eccesso di debito diventa troppo grande, la previsione che gli altri prenderebbero una parte del peso del debito potrebbe svanire piuttosto improvvisamente, e tutte le costruzioni subire un brusco arresto. Il debito diventa un forte inibitore di crescita. Anche se questo risultato può assomigliare a quello sostenuto dalla teoria dello “spiazzamento”, il meccanismo non è quello di un dislocamento, ma di disincentivo.

Con le tasse sulle vendite o sul valore aggiunto come le attuali, un deficit che volto alla riduzione delle aliquote fiscali oggi non avrebbe alcun effetto deprimente sui valori patrimoniali e avrebbe un effetto completamente stimolante, attraverso l’aumento dell’offerta aggregata di beni, eventualmente rafforzata da una spesa anticipata motivata dalle aspettative circa il fatto che le tasse potranno essere più alte in un secondo momento per finanziare il pagamento del debito. Non ci sarebbe nessun effetto di equivalenza ricardiana; semmai la previsione di maggiori imposte future incoraggerebbe la spesa corrente, aggiungendosi allo stimolo di maggiore offerta di titoli.

Il sistema fiscale federale degli Stati Uniti è dominato dalle imposte sui redditi, per il quale l’effetto è un misto tra imposte sul risparmio e imposte sulla spesa. In pratica alcuni individui avranno una idea chiara delle tasse che potrebbero essere imposte in futuro a seguito dell’esistenza di un debito maggiore e si può tranquillamente dire che non si verificherà alcun motivato fenomeno di equivalenza ricardiana, anche se ci può essere qualche malessere generalizzato tra gli spettatori in allarme, che coinvolge una sorta di parziale profezia che si autoavvera.

 

FALLACIA 10

Il valore della moneta nazionale in termini di valuta estera (o oro) si ritiene essere una misura della salute economica, e una le misure per mantenere quel valore si pensa servano a contribuire a questa salute. In alcuni ambienti una sorta di orgoglio sciovinista è collegato al valore della propria moneta, o una soddisfazione potrebbe derivare dal maggiore potere d’acquisto della moneta nazionale in termini di viaggi all’estero.

Realtà: i tassi di cambio liberamente fluttuanti sono il mezzo con cui gli adattamenti sono fatti per livellare le tendenze dei livelli dei prezzi nei vari paesi e gli squilibri commerciali si allineano ai flussi di capitale opportuni per aumentare la produttività complessiva del capitale. I tassi di cambio fissi o i tassi di cambio limitati a una banda ristretta possono essere mantenuti solo attraverso politiche fiscali coordinate tra i paesi coinvolti, imponendo tariffe che pregiudicano l’efficienza o altre restrizioni sugli scambi, o imponendo costose restrizioni che comportano inutilmente alti tassi di disoccupazione, come è implicito negli accordi di Maastricht. I tentativi di arrestare i tassi di cambio attraverso manipolazioni finanziarie a fronte di squilibri di base di solito si scontrano, alla fine, con grandi perdite per le istituzioni che effettuano il tentativo e un corrispondente guadagno da parte di agili speculatori. Anche nei casi di piccoli insuccessi, gran parte della volatilità dei tassi di cambio possono essere ricondotti a speculazioni sulla possibilità di massicci interventi della banca centrale.

Le restrizioni sui tassi di cambio, come sono previsti negli accordi di Maastricht, renderebbe praticamente impossibile per una piccola economia aperta, come la Danimarca, perseguire una politica di pieno impiego efficace in sé. Gran parte della crescita del potere d’acquisto generata da una politica fiscale di stimolo verrebbe spesa per le importazioni, diffondendo l’effetto stimolante nel resto dell’unione monetaria in modo che la capacità di indebitamento della Danimarca si esaurirebbe molto prima che la piena occupazione potrebbe essere raggiunta. Con i tassi di cambio flessibili, la maggiore domanda di importazioni causerebbe un aumento del prezzo della valuta estera controllando l’aumento delle importazioni e stimolando le esportazioni in modo che la maggior parte degli effetti di una politica espansiva potrebbero essere mantenuti in casa. Il pericolo di oscillazioni speculative selvagge in condizioni liberamente fluttuanti sarebbero notevolmente contenute nell’ambito di una politica di pieno impiego ben consolidata, soprattutto se combinata con una terza dimensione di controllo diretta sul livello generale dei prezzi interni.

Allo stesso modo, la ragione principale per cui stati e località non possono perseguire una politica indipendente di piena occupazione è che non hanno una valuta indipendente, e sono costretti ad avere un tasso di cambio fisso con il resto dell’area.

 

FALLACIA 11

Si sostiene che l’esenzione delle plusvalenze da imposte sul reddito possa promuovere gli investimenti e la crescita.

Realtà: qualsiasi tentativo di definire una speciale categoria di reddito soggetta ad un trattamento differenziato è un invito agli apprendisti stregoni del Congresso e degli uffici del fisco per iniziare a lanciare incantesimi destinati a produrre conseguenze sorprendenti. Tentare di elaborare regole amministrabili che definiscono linee economicamente significative tra interessi accreditati nei depositi ma non riscossi, obbligazioni senza cedola, apprezzamenti di stock di utili non distribuiti, utili derivanti da inflazione, utili derivanti da “insider trading”, utili derivanti da speculazioni su terreni, scommesse sui derivati, utili o perdite su attività di rischio e così via è un compito assai arduo. Contribuenti irascibili potrebbero quindi impegnarsi a cercare scorciatoie attraverso il labirinto che ne risulterebbe a discapito delle entrate e anche dell’efficienza economica. Dieci disposizioni speciali del codice possono essere combinate tra loro in più di mille modi per produrre risultati ben al di là della capacità di prevederle da parte di una commissione del Congresso e il proprio staff.

Concessioni in termini di guadagni devono comportare corrispondenti limitazioni alla deducibilità delle perdite, affinché non vi siano intollerabili grandi possibilità di arbitraggio a discapito delle entrate. Nel tentativo di contrastare le abilità dei tecnici dei contribuenti, le regole sono probabilmente più severe sulla deducibilità delle perdite che liberali rispetto ai guadagni, in modo da produrre una serie di situazioni in cui il Tesoro sta giocando a “testa vinco io, croce perdi tu” con il contribuente. Anche con regole livellate, potrebbe valere più il disincentivo di una ridotta deducibilità delle perdite verso investimenti speculativi che un’attrattiva derivante da tasse basse sulle plusvalenze in caso di successo.

La maggior parte degli investimenti economicamente desiderabili impiegano molto tempo affinché gli effetti attesi vengano riflessi sui mercati dei capitali, e la promessa di un vantaggio fiscale che diventi efficace in un futuro remoto, soggetto a possibili modifiche da parte di legislature future è probabile che rappresenti poco peso nel calcolo degli investitori. In ogni caso, l’imposta sul reddito delle persone fisiche derivante dalle plusvalenze è riscossa dopo o al di sotto del mercato e dispiega il suo effetto primario sul reddito disponibile dell’investitore, e relativamente poco effetto sul mercato dei capitali da cui derivano i fondi per la formazione del capitale.

In pratica, molte plusvalenze derivano da operazioni di trascurabile o dubbio merito sociale. Gli utili derivanti dalla speculazione fondiaria non aggiungono nulla all’offerta di terreni, e gran parte dei proventi da negoziazione di titoli basate su informazioni avute in anticipo, anche se non caratterizzabili come “insider trading”, non fanno molto per migliorare la produttività o l’investimento più di quanto non facciano le vincite derivanti da scommesse sulle partite di basket. I tentativi di escludere i guadagni da speculazione, limitando le concessioni alle attività detenute per periodi più lunghi, non solo introduce nuove complessità nella determinazione del periodo di detenzione nei casi di “rollover”, dividendi reinvestiti, ed altre transazioni, ma aggrava l’effetto lock-in, giacché il realizzo è rinviato per ottenere la concessione, un effetto particolarmente grave nel caso di esenzione totale dall’imposta sul reddito delle plusvalenze su immobili ceduti attraverso donazione o lascito.

Qualsiasi aumento del reddito disponibile derivante dalla minore tassazione delle plusvalenze sarebbe come accumulare per un individuo con una elevata propensione al risparmio. Se la proposta è avanzata su basi di entrate neutrali, i ricavi conseguenti sono suscettibili di avere un grande impatto sulla domanda di consumi, in modo che l’effetto complessivo netto di fare concessioni sulle plusvalenze potrebbe essere quello di ridurre domanda, vendite e investimenti in impianti produttivi. La principale forza trainante delle proposte potrebbe essere come un pretesto per fornire fortune inattese alle persone che possono contribuire ai fondi elettorali, nonché ulteriori commissioni per i broker.

Alcuni hanno ipotizzato riduzioni delle tasse sulle plusvalenze piuttosto che la loro esenzione totale, puntando ad aumentare le entrate provenienti dalla ondata di “vendite” dei capital gains per sfruttare i nuovi e ipotetici vantaggi fiscali di breve termine. Se questo è fatto sulla base di ipotesi di entrate neutrali correnti, ci potrebbe essere qualche stimolo dell’economia e degli investimenti una-tantum, derivante da quello che sarebbe un aumento del deficit effettivo visto da una prospettiva di lungo termine, ma questa (soluzione) sarà limitata, temporanea e controproducente nel lungo periodo.

Una misura molto più efficace sarebbe quello di ridurre o eliminare la tassa sul reddito delle società, che è in effetti una tassa scorrelata dal mercato, costituendo un ulteriore ostacolo che i potenziali capitali finanziari devono affrontare, in contrapposizione all’impatto delle concessioni dei capital gain al di sotto del mercato. In aggiunta a questo impatto doppiamente negativo sull’economia in cui le imposte contemporaneamente sia sottraggono dal reddito disponibile sia scoraggiano gli investimenti, le tasse hanno il difetto di provocare una distorsione nell’allocazione degli investimenti, favorendo i finanziamenti azionari deboli con conseguente maggiore incidenza di fallimenti, e complicando le leggi fiscali. Purtroppo a tale eliminazione è probabile che si oppongano non solo coloro che vivono di complessità, ma anche quei molti che variamente credono fermamente che l’onere ricada anche su qualcun altro diverso da sé. In realtà nella maggior parte degli scenari plausibili l’onere principale ricadrà sui salariati. Se considerato come un sostituto di altre imposte su basi neutrali di gettito, aumenterebbe la disoccupazione attuale. Se il lavoro attuale si presume essere mantenuto da una politica fiscale adeguata, la produttività e i salari futuri saranno compressi dal fatto che il fattore lavoro ha a disposizione meno capitale per lavorare.

Una giustificazione a volte offerta per l’imposizione di una tassa sul reddito delle società è che gli utili non distribuiti non sopportano la loro giusta quota di imposta sul reddito individuale. Piuttosto che mantenere un’imposta su tutti i redditi d’impresa, questa considerazione potrebbe richiedere una tassa di compensazione ad esempio del 2 per cento annuo sugli utili non distribuiti accumulati, come equivalente di massima ad un addebito di interessi sul differimento risultante delle imposte sul reddito individuale degli azionisti. Al meglio questo sarebbe rozzo, dal momento che non consente né variazioni nei tassi marginali a carico dei singoli azionisti, né eventuali realizzazioni da utili non distribuiti mediante la vendita di azioni, ma sarebbe comunque molto migliore della tassa inetta e draconiana sugli utili non distribuiti promulgata brevemente durante il 1930.

Una rimozione più approfondita degli effetti distorsivi delle imposte sugli investimenti reali potrebbe essere realizzata valutando l’imposta sul reddito individuale su base cumulativa, per cui una imposta lorda sul reddito accumulato fino ad oggi (compresi gli interessi attribuiti in materia di imposte passate pagate su questo reddito) sarebbe calcolata con riferimento a tabelle che dovrebbero prendere in considerazione il periodo in questione. Il valore accumulato, con gli interessi, delle imposte già pagate su questo reddito viene accreditato contro questa imposta lorda. A condizione che venga considerato il reddito totale, il carico fiscale finale sarà indipendente dai tempi di realizzazione delle reddito; circa i due terzi dei codici e dei regolamenti interni delle entrate diventerebbero superflui. Il terreno di gioco sarebbe effettivamente livellato; un trattamento equo dovrebbe essere concesso sia a coloro che realizzano grandi guadagni in un solo anno che a quelli che si sono ritirati dopo una breve carriera o alti guadagni, un gruppo non adeguatamente considerato nel quadro di molti altri regimi medi. Il pregiudizio nei confronti di investimenti con rendimento fluttuante o rischiosi sarebbe in gran parte eliminato. Le decisioni circa quando vendere beni per realizzare guadagni o perdite o quando vada fatta la distribuzione di dividendi potrebbero essere prese esclusivamente sulla base della valutazione delle condizioni di mercato, senza dover considerare conseguenze fiscali. Orde di tecnici fiscali potrebbero trasferire il proprio talento in attività più produttive.

La condiscendenza del contribuente sarebbe notevolmente semplificata. Il calcolo attuale dell’imposta cumulativa e dell’imposta dovuta richiede solo sei voci aggiuntive sui rendimenti, tre delle quali sono elementi semplicemente copiati dai rendimenti precedenti. Come misura introduttiva, la valutazione cumulativa potrebbe essere limitata a quei soggetti per effettuare una valutazione iniziale.

 

FALLACIA 12

Il debito potrebbe eventualmente raggiungere livelli tali che fanno si che gli istituti di credito siano minacciati da ribellioni e default.

Realtà rilevante: questa paura nasce in parte dall’osservazione delle crisi dei Paesi poveri di capitale che hanno avuto difficoltà a rispettare le obbligazioni denominate in una valuta estera, costretti in molti casi a finanziare le importazioni e, infine, a rimborsare gli interessi e i debiti in termini di esportazioni; la crisi spesso deriva da un crollo del mercato delle esportazioni. Nel caso in esame il debito è destinato a fornire una domanda interna per le attività denominate in valuta nazionale, e in assenza di una norma come la clausola dell’oro, non ci può essere alcun dubbio circa la capacità del governo di effettuare i pagamenti nei termini dovuti, anche nel caso di una moneta svalutata dall’inflazione. Né ci può essere alcuna questione di timore per gli istituti di credito nazionali fino a quando il debito è limitato a quello necessario per riempire il vuoto creato da un eccesso di domanda privata rispetto all’offerta privata di attività.

Non si è capito che il debito pubblico nazionale dovrebbe essere tenuto in grande quantità dagli stranieri. Ma gli stranieri dovessero voler liquidare il possesso di questo debito, o di qualsiasi altra attività domestica, potrebbero farlo solo nel loro insieme generando un surplus di esportazioni, alleggerendo il problema della disoccupazione nazionale, liberando risorse per soddisfare la domanda interna, e rendendo possibile ottenerlo con deficit più piccoli ed una crescita meno rapida del debito pubblico. La stessa cosa accade se gli investitori nazionali si dirigono verso investimenti in attività estere, riducendo così il loro drenaggio sugli attivi nazionali.

In un mercato in preda al panico può succedere che il prezzo di mercato delle attività potrebbe diminuire abbastanza rapidamente in modo che il valore totale di mercato delle attività disponibili per soddisfare la domanda interna potrebbe crollare. In tal caso un aumento temporaneo dei deficit pubblici piuttosto che una diminuzione sarebbe normale. Organizzare questo con un breve preavviso può essere difficile, e il pericolo di reagire in maniera eccessiva o con scarsa tempistica è reale. Qualcosa di più di semplici pure dichiarazioni che l’economia è fondamentalmente sana, tuttavia, si impone. Ma non si può del tutto escludere la possibilità che questo diventi una profezia generata dal panico che si auto-avvera derivante da una concentrare dell’attenzione sui simboli finanziari piuttosto che sulla realtà umana sottostante. In termini di Roosevelt, la cosa principale da temere è la paura stessa.

 

FALLACIA 13

Prevedere una tassazione generatrice di disavanzi di bilancio si traduce in una maggiore e forse più stravagante, inutili ed oppressiva spesa puibblica.

Realtà: Le due questioni sono abbastanza indipendenti, nonostante il fatto che molti anarco-liberisti sembrano utilizzare l’ideologia del pareggio di bilancio come un modo per mettere una camicia di forza sull’attività di governo. Un governo potrebbe avere un deficit senza effettuare alcuna attività oltre che a prestare denaro emettendo obbligazioni, pagando i proventi in pensioni di vecchiaia, e riscuotendo imposte sufficienti a coprire qualsiasi interesse sul debito netto. La questione di quale attività valga la pena portare avanti per il governo è una questione totalmente diversa da quella di quale sia il contributo del governo al flusso di reddito disponibile per bilanciare l’economia alla piena occupazione.

 

FALLACIA 14

Il debito pubblico è pensato come un onere tramandato da una generazione ai suoi figli e nipoti.

Realtà: al contrario, in termini generazionali (da non confondersi con intervalli di tempo), il debito è il mezzo con cui gli attuali coorti di lavoro vengono messi nella condizione di guadagnare di più attraverso la piana occupazione e investire nella maggiore offerta di beni, di cui il debito è una parte, in modo da provvedere alla propria vecchiaia. In questo modo i figli e i nipoti sono liberati dall’onere di provvedere al pensionamento delle precedenti generazioni, sia a titolo personale che attraverso programmi governativi.

Questo errore è un altro esempio di pensiero a somma zero che ignora la possibilità di un aumento dell’occupazione e della aumentata produzione. Anche se è ancora vero che i beni consumati dai pensionati dovranno essere prodotti dalla popolazione attiva contemporanea, l’aumento del debito pubblico permetterà ad una quantità maggiore di questi beni di essere scambiati con altre attività anziché trasferiti attraverso il meccanismo fiscale e previdenziale.

In qualche modo il risultato di tale finanziamento del disavanzo è analogo alla proroga di un regime pensionistico di previdenza sociale per fornire benefici aggiuntivi ai redditi medi e superiori oltre i livelli esistenti di salari e retribuzioni soggetti a contributi previdenziali e alle prestazioni corrispondenti. Ci sono differenze importanti, però. Il sistema di sicurezza sociale è infatti spesso criticato come in effetti una sorta di schema Ponzi in cui i benefici per coorti precedenti sono finanziate da imposte sulle coorti successive. Lo schema evita il collasso in virtù del suo essere obbligatorio in modo che ci saranno sempre coorti successive per pagare il conto, anche se forse con aliquote fiscali più alte o più basse, a differenza dei regimi privati che tendono a collassare quando si scopre che l’imperatore non ha vestiti e i nuovi contributori fuggono lontano.

Questo elemento Ponzi è stato, però, necessario per far decollare il programma durante la depressione. Il tentativo era stato fatto per stabilire il sistema. Fortunatamente tale eliminazione è probabile che incontri l’opposizione non solo di quelli che vivono grazie alla complessità ma anche di coloro che in vario modo credono fermamente che l’onere ricada su qualcuno diverso da loro stessi. In realtà nella maggior parte degli scenari plausibili l’onere principale ricadrà sui salariati. Se considerato come un sostituto di altre imposte sulla base di un gettito neutrale, aumenterebbe la disoccupazione attuale. Se la disoccupazione attuale si presume essere mantenuta da una sere di tasse adeguate, i pensionati riceverebbero pagamenti pensionistici ben oltre quello che sarebbe stato finanziato dai loro contributi e solo una parte relativamente piccola andrebbe accumulata in un fondo di riserva per consentire accidentali differenze tra entrate e spese. Anche così, il relativo breve ritardo tra l’insorgenza dei contributi previdenziali sui libri paga e l’inizio dei pagamenti sostanziali ai pensionati costituisce un prelievo dal potere d’acquisto, aggravato dall’esclusione delle entrate nel calcolo del deficit formale, aggiungendo pressione per ridurre la somma netta aggiuntiva del governo al potere di acquisto, e un pessimismo globale derivante dalla percezione dei disavanzi come sintomi di cattiva salute economica. Questi impatti aggravarono notevolmente il calo della produzione industriale nell’autunno del 1937, di gran lunga il più forte mai registrato.

Attualmente, l’importo da cui il valore attuale dei pagamenti futuri attesi ai partecipanti attuali supera quello dei contributi da loro attesi è una passività reale del governo che è probabilmente inevitabile almeno quanto quella rappresentata dal debito formale. Mentre le scadenze dei pagamenti sono soggette a variazioni attraverso atti del Congresso, sia cambiando l’età della pensione, sia imponendo pagamenti maggiori per imposte sul reddito, sia attraverso altre soluzioni, le pressioni politiche sono in grado di richiedere almeno un certo grado di indicizzazione all’inflazione, in modo che alla fine il saldo reale potrebbe probabilmente dimostrarsi sia come una obbligazione di “diritto” reale sia come un debito formale, che è soggetto in una misura molto maggiore ad una possibile erosione attraverso l’accelerazione dell’inflazione. Gli importi non sono piccoli; una stima ha valutato i diritti delle amministrazioni in conto capitale, compresi i pagamenti per le pensioni militari e civili, pari al Pil di oltre 3 anni, ma tali stime sono necessariamente soggette ad una vasta gamma di incertezze.

La situazione potrebbe essere formalmente regolarizzata da una voce contabile che si aggiungerebbe alle attività del sistema di sicurezza sociale e alle passività esplicite del governo. Tuttavia, questa sarebbe una mossa puramente formale che dovrebbe essere, in linea di principio, di trascurabile importanza pratica, anche se un Congresso ossessionato dalla riduzione del deficit formale potrebbe cogliere questo riconoscimento di debito come pretesto per ulteriore inadeguato rigore di bilancio. In ogni caso, l’impatto macroeconomico non si misura attraverso la grandezza della passività del governo, in qualunque modo sia essa calcolata, ma dal valore attribuito a questi diritti da parte dei potenziali beneficiari nel prendere decisioni di risparmio e di consumo.

Molti hanno anche lamentato che l’investimento delle attuali piccole riserve del “social security” in titoli di Stato speciali equivale a dirottare i contributi di sicurezza sociale verso la spesa pubblica. Ma la situazione non sarebbe diversa, invece, se l’amministrazione del “social security” dovesse investire in titoli privati, con il settore assicurativo privato che scambia i suoi fondi di riserva dai titoli privati ai titoli di Stato. L’unico vero impatto per spostare il sistema di sicurezza sociale “fuori dal bilancio” si troverebbe nella decisione del Congresso verso l’ampliamento del deficit nominale attraverso l’esclusione della crescita delle riserve del “social security”. Se il Congresso dovesse reagire per compensare questo aumento attraverso la riduzione del bilancio, il risultato sarebbe un aumento della disoccupazione prodotta come risultato di un salvataggio nazionale della riserva del “social security” dal suo “spreco” nella spesa pubblica.

Mettendo da parte come il sovvenzionamento, passato irrimediabilmente, delle generazioni precedenti, per coloro che attualmente pagano le tasse sui salari la realtà rilevante (in maniera distinta da convenzioni contabili arbitrarie), è che il rapporto tra le imposte pagate da o per conto di qualsiasi individuo e il valore attuale previsto dei benefici futuri è estremamente vago. Nel complesso, se si dovessero applicare le norme attualmente (esposte) sui libri ad uno stato demografico stazionario di una popolazione costante con una costante aspettativa di vita, con il relativamente piccolo fondo di riserva del “social security” mantenuto ad un livello costante, il valore attuale dei benefici dovuti ad un data generazione cadrebbe al di sotto del valore attuale netto delle imposte pagate nel corso della sua vita lavorativa a causa della differenza tra gli interessi che sarebbero stati guadagnati da una riserva attuariale piena e la minore quantità di interessi pagati sulla riserva registrata. Da questo punto di vista, guardando solo al futuro, ci sarebbe quindi un contributo netto del sistema di sicurezza sociale al fisco in generale, molto più grande, in realtà, dell’importo considerato nel caso dell’aggiunta alla piccola riserva nominale che viene impropriamente destinata alle spese pubbliche correnti.

In termini di cambiamenti demografici reali, popolazione in crescita e allungamento dell’aspettativa di vita significano che se il fondo di riserva viene mantenuto costante, le generazioni attuali guadagnano ancora a discapito delle generazioni successive. In pratica questo viene un po’ modificato dai differenziali tra i ricavi totali delle imposte correnti e i pagamenti totali delle prestazioni correnti, riflessi nelle fluttuazioni del fondo di riserva.

Tra ogni generazione, l’operazione spesso arbitraria e capricciosa delle complesse formule con cui vengono determinati i benefici indica che il rapporto tra imposte pagate in un dato momento da un determinato individuo e il conseguente aumento di eventuali benefici attesi è molto variabile e spesso capriccioso. A un estremo, molti di coloro che accumulano meno di 40 trimestri di occupazione lungo l’intero periodo di vita lavorativa non raggiungono i requisiti per ricevere alcun beneficio; i loro contributi sono effettivamente una tassa sui loro salari, sia se nominalmente pagati da se stessi sia dal loro datore di lavoro. Esempi sono le donne che iniziano a lavorare a 18 anni ma che si sposano e lasciano il lavoro a 25, o “empty nesters” che entrano nella forza lavoro per la prima volta all’età di 54 o successivamente. Per tali persone la spremitura in un quarantesimo trimestre di copertura potrebbe essere estremamente redditizio.

Anche per la maggior parte di coloro che risulteranno ammissibili, vi è una esclusione arbitraria in base alla formula arbitraria dei cinque anni dei guadagni coperti dalla più bassa indicizzazione annuale, in modo che per questi anni i contributi sono ancora una tassa pura. Ciò è particolarmente deplorevole in quanto questi anni minori sono nella maggior parte dei casi i primi anni di lavoro, in età per la quale i tassi di disoccupazione sono più alti, e gli effetti della tassa molto peggiori.

I benefici non sono pagati sulla base delle imposte pagate, ma sulla base della copertura salariale, il che significa che coloro che hanno lavorato durante gli anni in cui le aliquote sono state basse ottengono benefici come se avessero pagato le tasse ai livelli successivi più elevati. D’altra parte, nelle prestazioni di calcolo, i salari sono indicizzati non con un indice dei prezzi o con un coefficiente di interesse composto, ma con un salario medio nazionale, che tendenzialmente è cresciuto ad un tasso significativamente inferiore ad un adeguato tasso di interesse. Il risultato è che in un periodo di aliquote fiscali costanti, le imposte sui salari precedenti comportano meno benefici in termini di valore attuale rispetto a quelli sui salari successivi.

I benefici sono determinati su basi progressive piuttosto ripide, essendo circa il 90% dei primi $ 5.000 dei salari individuali medi indicizzati annuali, il 32% dei salari tra $ 5.000 e $ 30.000, il 15% di quelli tra $ 30.000 e $ 60.000, e zero sopra i $ 60.000. Il risultato è un trasferimento abbastanza consistente dai lavoratori ad alto reddito verso i lavoratori a basso reddito. I lavoratori a basso reddito ricevono effettivamente, come gruppo, benefici che superano, in valore attuale, le imposte sui salari versate sui loro guadagni, mentre relativamente gran parte delle tasse sui salari versate sugli stipendi più alti sarebbe effettivamente una tassa piuttosto che un premio.

A causa di questo basso ritorno in termini di benefici sulle imposte sui salari nel range $ 30,000 – $ 60.000, il fatto che non viene prelevata alcuna imposta sui salari per stipendi superiori a questo limite di $ 60,000 produce una flessione profondamente anomala nel livello del tasso effettivo marginale combinato sui redditi da guadagni superiori a questo limite. Non solo questa inversione di progressività è inefficiente in termini di incentivi, ma apre anche la possibilità ad un accordo in base al quale un datore di lavoro sarebbe d’accordo con il proprio dipendente a pagare $ 20.000 e $ 100.000 in anni alterni, invece che un costante di $ 60.000. Ciò ridurrebbe le tasse da pagare sui salari mentre produrrebbe solo una riduzione relativamente piccola dei benefici attesi. Questo potrebbe essere parzialmente compensato da un conseguente aumento delle imposte sul reddito del singolo a meno che non si possa mettere a punto qualche spostamento compensativo dagli altri redditi.

L’impatto del sistema del “social security” sull’equilibrio tra la domanda e l’offerta di beni e sull’occupazione è quindi piuttosto complesso. Tuttavia, non dipende tanto dalla complessa realtà del sistema come viene percepita, sia dai partecipanti che dal Congresso. Molti al Congresso sembrano confusi dalla irrilevante retorica selvaggia per quanto riguarda la presunta “deviazione ” delle eccedenze dei ricavi del “social security” verso la spesa pubblica, e dalla disputa circa cui il sistema deve essere considerato “nel budget” o “fuori budget”. La maggior parte dei contribuenti dipendenti sono solo vagamente consapevoli del rapporto tra i loro “contributi ” e gli eventuali benefici. La maggior parte dei lavoratori dipendenti più giovani probabilmente prestano poca attenzione alla prospettiva dei benefici in diversi decenni futuri, e tendono a considerare il loro contributo del tutto come una tassa, anche se forse sotto la persistente illusione che la quota della tassa del “datore di lavoro” è effettivamente a carico del datore di lavoro.

I lavoratori anziani a basso salario sono forse più propensi a prendere in considerazione i benefici futuri per determinare il loro atteggiamento verso le imposte sui salari, le aspettative verso i benefici e le decisioni sul livello di spesa. I lavoratori ad alto salario, d’altra parte, possono essere più propensi a considerare i contributi sui salari come una tassa, incoraggiati, in molti casi, dalla propaganda mostrando come il loro contributo, se investito invece su base individuale in pensioni o rendite private, potrebbe restituire sostanzialmente maggiori benefici, in modo che il “social security” sembra essere un cattivo affare per loro.

Un altro modo di vedere le cose è quello di indagare l’equivalente, in termini di ricchezza individuale, dell’interesse dei clienti nel sistema. Da un lato il livello dei benefici futuri non è garantito, ma è soggetto a modifiche da parte del Congresso, come ad esempio sottoponendo i benefici all’imposta sul reddito individuale, aumentando l’età normale di pensionamento in base alla quale vengono calcolati i benefici, aumentando il livello imponibile dei salari, o anche cambiando la stessa formula delle pensioni. Mentre non vi è alcun minimo garantito al di sotto del quale le pensioni non possono essere ridotte, la realtà politica sembra essere che i contribuenti possano contare su una onesta equivalenza di ricchezza sostanziale. C’è anche una pratica abbastanza consolidata di indicizzare le pensioni rispetto all’indice dei prezzi al consumo, in modo che la ricchezza previdenziale rischi di essere meno compromessa dall’inflazione rispetto agli investimenti in titoli di Stato a lungo termine.

Inoltre, la ricchezza del “social security” è molto meno fortemente concentrata tra le classi medie e superiori in termini di ricchezza generale, e quindi tende ad avere una maggiore influenza favorevole sul livello della spesa per consumi.

 

FALLACIA 15

La disoccupazione non è dovuta alla mancanza di domanda effettiva, riducibile attraverso deficit di stimolo alla domanda, ma è “strutturale”, derivante da una mancata corrispondenza tra abilità dei disoccupati e quanto richiesto dai posti di lavoro, o “regolamentare”, derivante da leggi sul salario minimo, da restrizioni di impiego di classi di individui in determinate professioni, dai requisiti per la copertura sanitaria, o vincoli di licenziamento onerosi, o “volontario”, in parte come risultato di troppo generosi e mal progettati programmi di previdenza sociale e disposizioni di soccorso.

Situazione attuale: per chi conosce le condizioni del mercato del lavoro, è abbondantemente evidente che una gran parte di quelli attualmente registrati ufficialmente come disoccupati, così come molti di quelli che non sono registrati, sono pronti e in grado di svolgere la maggior parte, se non proprio tutti, i tipi di lavoro che sarebbero disponibili in seguito ad un aumento della domanda di mercato. In assenza di tale aumento, agli attuali livelli di disoccupazione, i tentativi di far entrare persone o gruppi di disoccupati selezionati in posti di lavoro attraverso la formazione, l’istruzione riguardo alle tecniche di ricerca di lavoro, le minacce di revoca o di negazione delle indennità, e cose simili, semplicemente spostano le persone selezionate all’inizio della coda d’attesa senza ridurre la lunghezza della coda stessa. Semplicemente perché qualsiasi viaggiatore può assicurarsi un posto su un volo raggiungendo l’aeroporto con sufficiente anticipo non significa che se ognuno di 200 passeggeri arrivasse in aeroporto con sufficiente anticipo potrebbero salire su un volo con posti a sedere per 150.

Anche se i lavori sono specificatamente creati per clienti selezionati, come le agevolazioni dell’apertura di un nuovo negozio o affare, mentre ci può essere uno stimolo temporaneo per l’economia derivante da qualsiasi investimento di capitale in cui è coinvolto, in ultima analisi, in molti casi, questo sarà solo riduzione del potere d’acquisto da altri stabilimenti, con conseguente riduzione delle vendite, riduzione del valore del capitale, ed eventualmente riduzione di impiego in qualche altra parte. Solo se qualche elemento di novità induce i consumatori a spendere importi supplementari, interferendo sui loro risparmi previsti, o se la “tariffa di lavoro” comporta la produzione di un bene pubblico o di un servizio accessorio gratuito che non compete con il potere d’acquisto o sostituisce qualche altro impiego pubblico, ci sarà qualche riduzione netta della disoccupazione. Ma mentre tali programmi pubblici di lavoro possono veramente convertire il lavoro dei disoccupati nel miglioramento delle strutture pubbliche e di strutture di vario tipo, purché siano finanziati sulla base di un deficit invariato, qualsiasi impatto ulteriore sull’economia nel suo complesso sarà limitato alla differenza tra il tasso aggiuntivo di quelli il cui reddito deriva dal programma e il tasso di spesa di coloro che pagano le tasse per finanziarla.

Oltre a un tale programma di lavori pubblici, il risultato dei tentativi di spingere la gente a trovare posti di lavoro è semplicemente un grande gioco di sedie musicali in cui gli enti locali istruiscono i loro clienti nell’arte della seduta rapida, con i musoni delle ”tariffe di lavoro” che minacciano di confiscare le stampelle di coloro che soccombono, mentre Washington (il governo centrale) è occupato a rimuovere le sedie a causa della riduzione del deficit.

Per quanto riguarda la disoccupazione “volontaria”, gran parte di essa scomparirebbe non appena la domanda e l’attività aumenti, e i lavoratori più qualificati si muovono verso l’alto lasciando i posti di lavoro a bassa qualifica grazie alla crescente domanda di competenze elevate, lasciando più posizioni aperte da riempire per i disoccupati poco qualificati, e rimuovendo l’effetto deprimente degli alti livelli di disoccupazione sui salari dei lavori a basse competenze. I salari per i lavori a bassa qualificazione tenderanno necessariamente ad aumentare, alzandoli sufficientemente al di sopra del livello della rete di sicurezza sociale per attenuare gli incentivi negativi del welfare. Salari più alti farebbero aumentare i prezzi dei prodotti a bassa qualificazione, aumentando la “produttività” misurata per tali posti di lavoro e riducendo il marchio attribuitogli di lavori “a bassa produttività” o “residuali”. I prezzi dei prodotti ad alte abilità dovrebbero ridursi per compensazione, probabilmente come risultato del progresso tecnologico o di economie di scala, ma se non accadesse si potrebbe verificare un piccolo aumento una tantum del costo della vita. Questo tuttavia sarebbe un piccolo prezzo da pagare per i benefici della piena occupazione. Non si deve assumere questo come l’inizio di una spirale inflazionistica.

Per essere sicuri, ci sono storie di orrore di persone che molto razionalmente rifiutano l’occupazione a causa dell’impatto combinato della riduzione conseguente delle varie prestazioni sociali legate al reddito, degli aumenti delle imposte e dei contributi previdenziali e di viaggio, della cura dei bambini, e degli altri costi associati con l’occupazione. In larga misura ciò è il risultato della progettazione di una varietà di programmi di assistenza sociale e di dipendenza dal reddito indipendenti l’uno dall’altro, senza tenere riguardo alle interazioni e agli effetti combinati. Dal momento che ogni programma legato al reddito è impostato separatamente, i benefici tendono ad essere ridotti o eliminati attraverso modalità progettate per tenere i costi diretti attribuiti al particolare programma o misura bassi. Queste riduzioni o eliminazioni possono sembrare abbastanza ragionevoli se considerate separatamente, ma quando molte di loro si sovrappongono i risultati combinati creano assurdamente elevate “tasse” marginali effettive. Sono necessarie riduzioni più lente, anche se ciò aumenta il costo preventivato dei programmi.

Nella maggior parte dei casi non vi è nessuna giustificazione generale per alcuna riduzione dei beneifici. Nel caso dei crediti derivanti da reddito da lavoro, per esempio, eliminando le riduzioni e recuperando entrate da aumenti dei tassi marginali sulle fasce di reddito superiori comporterebbe un modello più uniforme delle aliquote marginali effettive con minori effetti disincentivanti globali e una notevole semplificazione dei moduli fiscali ed una riduzione dei costi di conformità. La legge attuale sembra essere sorta perché il credito derivante da reddito da lavoro è stato emanato come una toppa apposta alla legge preesistente, oggetto di un tabù contro l’aumento aliquote marginali nominali, mentre l’aumento dei tassi marginali effettivi potrebbe ottenersi dalle riduzioni in questione. L’atteggiamento politico ed la arcana meccanica del processo legislativo hanno impedito un esame razionale della struttura fiscale nel suo complesso.

La pronta disponibilità di posti di lavoro a salario considerevole renderebbe più facile negare i benefici a coloro eccessivamente pignoli sul tipo di occupazione i quali lo accetteranno, riducendo così le necessità di TFR e di altre forme di risarcimenti. La piena occupazione reale ridurrebbe anche la pressione al protezionismo, la resistenza all’abbandono di installazioni militari in esubero e ad altre attività obsolete e renderebbe la sicurezza del lavoro in genere un problema minore. La piena occupazione reale inoltre incoraggerebbe i datori di lavoro a competere per organizzare orari e modalità di lavoro per adattarsi a coloro con obblighi familiari o altri vincoli, e comunque prestare maggiore attenzione al miglioramento delle condizioni di lavoro. Ci sarà meno bisogno di leggi sul salario minimo e altre regolamentazioni pubbliche delle condizioni di lavoro, e meno difficoltà nell’applicazione di quelle che ci sono.


Queste nozioni fallaci, che sembrano essere largamente diffusa sotto varie forme da coloro che sono vicini agli scranni dove siede il potere economico, stanno portando a politiche che non sono solo crudeli, ma inutili e persino controproducenti in termini di obiettivi professati. In alcuni ambienti non sembra nemmeno di esserci un movimento in direzione di una “dichiarazione di prosperità” e adozione di misure per “evitare il surriscaldamento dell’economia” o per spingere verso un tasso di inflazione più elevato. Il Congressional Budget Office, infatti, riecheggiando l’umore prevalente a Washington, appare soddisfatto con proiezioni che vedono i tassi di disoccupazione continuamente vicini al 6% lungo un tempo indeterminato. Per quelli che hanno anche un interesse minimo verso la situazione dei disoccupati e dei senzatetto, un simile atteggiamento appare insensibile fino all’estremo.

Noi non usciremo dalla stasi economica finché continueremo ad essere governati da nozioni fallaci che si basano su false analogie, analisi unilaterali, ed un implicito assunto di base controfattuale di un livello inevitabile di disoccupazione. Peggio ancora, potremmo ben trovarci in una situazione analoga a quella del 1926, quando, secondo l’ortodossia dell’epoca, il debito accumulato durante la Prima guerra mondiale era qualcosa che doveva essere pagato il più rapidamente possibile. Di conseguenza, il potere d’acquisto veniva assorbito dal flusso di reddito interamente dalle tasse ed utilizzato per ripagare il debito. Gli importi versati per ritirare le obbligazioni non venivano considerati dai destinatari come reddito da spendere, in modo che la domanda dei consumatori non crebbe sufficientemente per mantenere il livello di occupazione e la disoccupazione aumentò notevolmente nel periodo 1926-1928 fino al 1929. Per converso, i proventi furono stati usati per far salire i prezzi degli asset. Per un periodo questo rallentamento della crescita venne moderato dall’euforia creata dagli accantonamenti corrispondenti da redditi da capitale e dal conseguente tasso maggiore di spesa. Ma nemmeno il più facile finanziamento offerto dai maggiori rapporti prezzo/utili dei titoli poteva spingere stimolare la capacità di espansione molto oltre la capacità della domanda di fornire vendite remunerative, e quando ci si rese conto che ulteriori aumenti dei prezzi degli asset non potevano essere giustificati dal rallentamento degli aumenti della domanda di prodotti, le plusvalenze cessarono di aumentare e il sistema finì nella depressione del 1930.

Il parallelo con la situazione attuale è che, anche se non stiamo pagando un debito, in relazione alla situazione attuale la riduzione del deficit è comparabile alla riduzione della contribuzione netta del governo al reddito disponibile. Nelle sue proiezioni il Congressional Budget Office sembra scontare quasi completamente l’effetto di una diminuzione di tale riciclo sul livello di attività. Al contrario, il CBO presuppone che se questo riciclo sia ulteriormente ridotto con un programma di pareggio di bilancio il risultato sarà un leggero aumento del tasso di crescita del PIL dello 0,1% l’anno, piuttosto che una diminuzione (The Economic and Budget Outlook, May, 1996, pp. 1-3).

A quanto pare si è ipotizzato che la riduzione del disavanzo indurrà il Consiglio della Federal Reserve ad abbassare i tassi di interesse, e che questo porterà ad un aumento delle attività di investimento. Ma sembra improbabile che ci sia qualcosa che il Consiglio della Federal Reserve vorrebbe o potrebbe fare che potrebbe contrastare, durante un qualsiasi periodo di tempo prolungato, lo scoraggiamento agli investimenti inerenti alla riduzione della domanda di mercato risultante dalla riduzione del meccanismo di reinvestimento del governo sul reddito. C’è, infatti, una tendenza a sovrastimare l’effetto di lungo periodo delle variazioni dei tassi di interesse sui tassi di investimento a seguito di osservare le risposte di breve-medio periodo dei flussi di investimento rispetto alle variazioni dei tassi di interesse. Una volta avutesi (tali riduzioni dei tassi), le scorte di capitali raggiungono un livello corrispondente al tasso di interesse più basso, ed ulteriori investimenti scenderanno a livelli prossimi al suo precedente tasso. Questo è un po’ come il corso d’acqua nelle gare dei mulini che può essere aumentato per un po’ di tempo abbassando la parte superiore della diga, ma il flusso ritornerà al suo livello precedente non appena la superficie della diga si abbassa corrispondentemente. L’azione del Consiglio della Federal Reserve può essere in grado di rinviare, ma non di superare, le conseguenze di un inadeguato reinvestimento dei risparmi nei redditi da parte del governo.

Se si dovesse effettivamente condurre un programma di pareggio di bilancio, l’analisi precedente indica che prima o poi un incidente paragonabile a quello del 1929 si avvererebbe quasi certamente. Per essere precisi, sarebbe probabilmente un evento meno grave della depressione del 1930 a causa dei molti fattori di tutela che sono state introdotti successivamente, e l’entusiasmo per la ricerca del “Santo Graal” costituito dal pareggio di bilancio può rarefarsi a fronte di un approfondimento della recessione, ma le conseguenze del tentativo fallito sarebbero ancora gravi. Per assicurarci contro un tale disastro e avviarci sulla strada della vera prosperità è necessario abbandonare la nostra ossessione ideologica non motivata verso la riduzione dei disavanzi pubblici, riconoscere che è l’economia e non il bilancio dello Stato che ha bisogno di bilanciamento in termini di domanda e offerta degli assets, e procedere per reinvestire i tentativi di risparmio nei flussi di reddito ad un tasso adeguato, in modo che non svaniscano semplicemente nella diminuzione degli incassi, delle vendite, della produzione e dell’occupazione. C’è persino un pranzo gratis là fuori, davvero molto sostanzioso. Ma richiederà sempre di essere libero dai dogmi degli apostoli dell’austerità, la maggior parte dei quali non prenderebbe parte ai sacrifici che consigliano agli altri. In mancanza di questo ci troveremmo tutti a pattinare su del ghiaccio molto sottile.


ISLANDA: DISOCCUPATI AL 2 PER CENTO. SENZA UE

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Come ce l’hanno fatta gli islandesi?

Semplice. “Non avremmo potuto uscire dal disastro se fossimo stati nembri dell’Unione Europea”, ha spiegato il primo ministro Sigmundur Davíð Gunnlaugsson. La fortuna aggiuntiva è di non essere entrati nell’euro ma aver la loro moneta sovrana. “Se i debiti fossero stati in euro, se fossimo stati obbligati (dalla UE) a fare come l’Irlanda o la Grecia, e prenderci carico delle banche fallite, ciò avrebbe affondato la nostra economia”… <<<leggi>>>

ISLANDA: DISOCCUPATI AL 2 PER CENTO. SENZA UE.

L’Unione Europea in Declino e Brexit

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Il momento di massimo pericolo per la democrazia parlamentare britannica è stato 13 anni fa, il punto di maggiore “hybris” e trionfalismo europeo.

Gli eventi si sono succeduti a velocità esorbitante dal Trattato di Maastricht del 1992 fino alla frenetica conclusione del Convegno europeo “stile Filadelfia” del giugno 2002, e sempre nella stessa direzione: quella di un’unione sempre più stretta. Che vi piaccia o meno parlare di un “superstato”, la direzione era sistematicamente contraria al principio di sovranità e auto-governo degli Stati nazionali europei… <<<leggi>>>

Evans-Pritchard: L’Unione Europea in Declino Non È Più quel Mostro Anarco-Imperialista che Faceva Paura

Impregilo vende Todini a gruppo kazako

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Il gruppo cercava un acquirente per la controllata da marzo 2014. L’operazione da 50 milioni arriva dopo che il premier ha ricucito i rapporti diplomatici con il presidente Nazarbayev, complicati dal caso Shalabayeva… <<<leggi>>>

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01/15/salini-impregilo-vende-todini-a-gruppo-kazako-grazie-a-buoni-uffici-di-renzi/2378587/

COME DIRE CHE IL TENGE COMPRA TODINI

Per Varsavia l’euro può attendere

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L’euro può aspettare, Varsavia si terrà stretto il suo zloty ancora per molti anni. Di rinvio in rinvio, l’ingresso nel club della moneta unica rischia di slittare addirittura al 2020. E dire che il changeover sarebbe dovuto avvenire l’anno scorso, ma la crisi dell’Eurozona ha convinto il premier liberale Donald Tusk a cambiare i suoi piani. Nel frattempo, il consenso per l’euro tra i polacchi non ha fatto che scendere. Se infatti viaggiava attorno al 60% nel 2009, ora solo un terzo dice di essere favorevole… <<<leggi>>>

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-03-10/varsavia-euro-attendere-082011.shtml?uuid=AbelxccH