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Così vent’anni fa l’Ulivo consegnò l’Italia alla dominazione germanica

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[pullquote]…..Il paradosso vero di tutta la vicenda è quello per cui i protagonisti della vicenda, i più filo euro e quindi i più responsabili dell’ordoliberalismus dilagante, furono le forze socialiste e cristiano sociali europee…[/pullquote]

Di Giulio Sapelli. Son vent’anni dalla nascita de L’Ulivo, e forse non è inutile fare il punto su quella che fu la sua politica economico-monetaria. Una politica che si inserisce nel grande percorso di trasformazione mondiale capitalistica ancora in corso, ma che iniziò ad apparire visibile esattamente negli anni di cui si parla in queste pagine, ossia alla metà degli anni novanta del Novecento.

È ormai diffusa la quasi stucchevole affermazione per cui dalla crisi economica mondiale in corso stia emergendo una nuova formazione economico-sociale capitalista. In questo in verità non vi è nulla di nuovo, gli andamenti delle forze produttive sono sempre intimamente legati alle forme della produzione e quindi ai rapporti sociali e istituzionali. Anzi, molto spesso nella storia capitalistica questi ultimi hanno avuto un ruolo determinante nel pre-formare le stesse forze produttive, che ben poco hanno di meccanico e deterministico.

Il sismografo più sensibile e rilevante che segnala i mutamenti tra forme dell’accumulazione e rapporti sociali di produzione è il lavoro. Parlo naturalmente del lavoro vivo, incorporato in quel reticolo di rapporti contrattuali che rinserrano la forza di lavoro, ossia quella parte del tempo di lavoro che configura il rapporto capitalistico. In esso, vivaddio, a essere venduto o sottoposto al lavoro comandato, non è tutto il lavoro della persona lavoratrice, come è nei rapporti di schiavitù, ma solo il tempo durante il quale la persona è sottoposta ai rapporti sociali di lavoro. Per capire cosa è cambiato in questi ultimi, bisogna risalire non alla crisi in corso ma alle sue origini.

Si tratta di vari fenomeni solo apparentemente distinti ma l’un con l’altro legati. L’uno risale al crollo del sistema di Bretton Woods tra il 1971 e il 1973, quando il dollaro smise di essere moneta di riferimento e ci si avventurò in un sistema mondiale di alti tassi di interesse e di profonda volatilità dei rapporti tra le valute. L’eccesso di liquidità che si creò, grazie all’intensificazione dei rapporti oligopolistici sul fronte del commercio mondiale delle materie prime, generò un profondo spostamento tra valore della produzione e del pluslavoro che ne derivava e valore della circolazione monetaria che iniziò a valorizzarsi a tassi molto più forti di crescita di quanto non fosse in passato di per se stessa e con se stessa.

La circolarità denaro-merce-denaro, dove il denaro finale era naturalmente superiore a quello iniziale realizzandosi nella produzione come plusvalore, non era più solo. Al suo fianco il denaro diveniva merce di se stesso attraverso una grande trasformazione dei meccanismi e delle regole di scambio (derivati, et similia, scambiati in shadow banks e in shadow pools) per creare ulteriori masse di denaro da valorizzare a loro volta. Contestualmente il managerial capitalism, dove la proprietà era divisa dal controllo e il manager dominava l‘azionista, veniva via via sostituito dall’owner capitalism dove nominalmente l’ azionista domina il manager, mentre in effetti è quest’ultimo a dominare l’ azionista stesso, come dimostrano le stock options e le vertiginose ascese di stipendi variabili dei top-manager.

Mentre si celebra lo shareholder value si consolida invece il predominio dei manager superpagati secondo algoritmi sconosciuti tanto agli azionisti quanto ai capitalisti. Che cosa c’entra questo con il lavoro? C’entra, eccome. L’inizio di questa intersezione tra owner capitalism, dominato dai manager stockoptionisti, e lo sviluppo delle forze produttive ha la sua acme nel lungo ciclo ininterrotto di crescita dell’economia statunitense, ciclo che dura dalla fine degli anni ottanta fino alla prima metà del primo decennio del secondo millennio. Alla base di questo lungo ciclo, in cui pareva che il capitalismo non avesse più crisi, stava l’intersezione dell’owner capitalism con l’Information Technology and Communication (ITC), ossia con quel nuovo ciclo Kondatrieff, di grappoli di innovazione nel campo delle telecomunicazioni, della valorizzazione sul piano spaziale dell’elettro magnetismo e insieme della miniaturizzazione tipica delle terre rare. La produttività del lavoro crebbe a dismisura. Questo per due fattori: il primo fu l’abbassamento dei costi di transazione: tempo e spazio tendevano ai costi zero. Il secondo elemento fu l’aumento della produttività del lavoro che non a caso avvenne nei sistemi sociali in grado di sviluppare quote crescenti di plusvalore contestualmente alla creazione di enormi masse di domanda interna. La domanda estera, non quella interna, pareva diventare l’elemento essenziale, non solo nei mercati dove questo processo ebbe inizio, in primis il mondo anglosassone a common law, ma anche in misura minore l’Europa continentale a sistema giuridico romano-germanico. I mercati dovevano essere creati in quelli che un tempo si chiamavano paesi in via di sviluppo e che ora si chiamano BRICS.

Naturalmente, come oggi sappiamo, questi mercati che generarono l’illusione che tutte le economie cosiddette avanzate potessero essere fondate su modelli export-lead, non si svilupparono come previsto.

Ma questo era ed è il dogma principale dell’ordoliberalismus unitamente all’ assenza di debito pubblico e alla scrittura nelle costituzioni dei principi liberisti…che è quanto di più illiberale possa esistere, ma è questo il dogma della politica fondata sull’euro. E fu proprio questa errata previsione il principio di riferimento della politica monetaria dell’ Ulivo a trazione europeo-teutonica. E così inizia, nascostamente dapprima, una gigantesca crisi di sovraccapacità produttiva. La prova di ciò non risiede tanto e soltanto negli enormi stoccaggi di merci invendute, ma soprattutto nella colossale riduzione della forza lavoro occupata su scala mondiale e soprattutto in quelle grandi corporation che erano state all’origine del lungo ciclo della new economy e della diffusione dell’ITC. Naturalmente da circa trent’anni, non a caso, la dimensione media su scala mondiale si va riducendo e questo per la crescente produttività del lavoro creata non grazie alla lunghezza del tempo di lavoro, ma all’intensificazione della produttività tecnologica tutta labour-saving.

La creazione del cosiddetto nuovo proletariato asiatico che è una realtà, beninteso, che coinvolge centinaia di milioni di nuovi proletari, non deve trarre in inganno. Si tratta di un fenomeno temporaneo, ossia non durerà più di un cinquantennio, ossia il battito di un ciglio nella storia. E questo perché questo nuovo proletariato sarà prestissimo investito, lo è già, della legge gerschenkroniana del vantaggio dell’ arretratezza, ossia del fatto che in India, in Cina, in Malesia, In Birmania, a Singapore, in Perù, etc, non si passano tutte le fasi della crescita tecnologica, ma si saltano tali fasi e ci si aggrappa, nella produzione di plusvalore, all’ultima disponibile.

Questo non significa che non esistano ancora immense sacche di plusvalore relativo, ossia creato non dalla tecnologia ma dalla durata della giornata di lavoro e dai bassi salari. Fenomeno che accompagna sempre l’accumulazione capitalistica e che riappare oggi, sfatando ogni determinismo tecnologico, proprio nel vecchio continente, sotto il tallone dell’ordo-liberalismo teutonico che risponde alla caduta del tasso di profitto con l’abbassamento dei salari e con la deflazione, generando sempre in tal modo nuove crisi da sottoconsumo come sono oggi quelle in corso in Europa.

Tale ordoliberalismus nasce con L’Ulivo: per questo val la pena parlare di questo fenomeno politico dal nome vegetale.  Che ruolo ha avuto la finanza sregolata ordoliberista in questo interessante panorama analitico e di grande sofferenza sociale? Essa non è più divenuta una variante della classica produzione di plusvalore derivante dall’ acquisizione del pluslavoro grazie al lavoro comandato, così come lo descriveva Ricardo. È divenuta qualcosa di più. È’ divenuta lo strumento che maschera la caduta tendenziale del saggio di profitto generata dalla crescente disoccupazione, quindi dal crollo del lavoro vivo e altresì dalla crescente crisi di sovraproduzione che genera la non solvibilità della domanda. La finanza serve a prendere tempo, ossia il processo che prima ho evocato, ha trasformato tutte le imprese in grado di generare masse rilevanti di cash flow in imprese di nuovo tipo che creano, accanto al valore generato dalla produzione, un valore generato dalla finanziarizzazione grazie all’estensione della circolazione del denaro contro denaro e soprattutto attraverso la gestione dell’indebitamento che si spinge sino al punto di vendere debito per il debito, con altissimi tassi di rischio.

Naturalmente questo processo ha investito nei sistemi banco-centrici europei anche le banche e nei sistemi non banco-centrici,come quelli anglosassoni, tutte le istituzioni non dirette all’erogazione dei crediti ma alla creazione di valore di denaro dal denaro, come fondi di investimento et similia. Di tutto questo ci siamo accorti solo nel 2007, con la crisi da eccesso di rischio che generò il crollo di Lehman Brothers.Lo stato, tutti gli stati mondiali, avevano accompagnato questo processo, lo avevano sostenuto con le deregolamentazioni alla Clinton e alla Blair e avevano diffuso la certezza, così come era stato nella grande crisi delle casse di risparmio nordamericane alla fine degli anni Ottanta del Novecento, che lo stato sarebbe intervenuto per salvare il salvabile. A quel tempo, nel 2007, ciò non avvenne. In verità si trattò di un non salvataggio dettato più dal timore e dall’inesperienza tecnica perché, come sappiamo, dopo di allora, lo stato, o con le nazionalizzazioni delle banche o con i finanziamenti delle industrie con prestiti ad alto rischio (vedi Obama e l’industria automobilistica americana) interviene, vedasi il ruolo crescente delle banche centrali con politiche neokeynesiane per arginare la disgregazione sociale.

Lo stato è sempre intervenuto, cosicchè si potrebbe veramente parlare a livello mondiale dell’ascesa di una nuova forma di capitalismo monopolistico di stato che cerca, con i suoi interventi, di far fronte sia alla crisi industriale e alla disoccupazione, che ne deriva, sia all’eccesso di rischio. Ciò che si contrappone all’ascesa di questo nuovo capitalismo monopolistico di stato, a dominazione finanziaria, è l’ordo-liberalismus teutonico-nordico che ha dietro di sé una lunga tradizione intellettuale e che con l’unificazione della nazione tedesca, negli anni Novanta, ha profondamente cambiato l’equilibrio di potenza in Europa.

L’ordo-liberalismus ha tutte le caratteristiche sopra descritte del capitalismo finanziarizzato ma se ne differenzia perché al sistema di libera concorrenza ha sostituito in effetti il sistema di potenza: impone bassi salari, abbassamento della spesa pubblica, distruzione dell’ welfare a tutti gli altri stati europei che non possono seguire il suo modello export-lead con la stessa intensità, mentre garantisce pluralità delle forme di allocazione dei diritti di proprietà e ruolo dello stato al suo interno, stato che sostituisce il principio di sussidiarietà quando esso fallisce, ruolo che invece vieta a tutti gli altri stati europei. Fa questo attraverso il controllo delle istituzioni europee prive di legittimazione popolare, con una fermezza e una continuità impressionante, come ci dimostra la deflazione europea in corso. Ciò nonostante il meccanismo di consustanzializzazione della finanza nella produzione si è pienamente inverato anche in Europa, e quindi gli effetti sul lavoro sono assai simili a quelli prima descritti a livello mondiale. Ossia: disoccupazione di massa per restringimento della base produttiva, abbassamento dei redditi per diminuzione della massa salariale, crisi crescente delle piccole unità produttive che non possono generare la finanziarizzazione prima descritta, che serve a prendere tempo rispetto alla caduta del tasso di profitto grazie al valore creato dalla circolazione del denaro che produce denaro e/o dalla vendita del debito su debito grazie alla leva ad altissimo rischio.

Ecco allora giungere come aveva previsto Hansen nel 1939, la deflazione che conduce alla stagnazione secolare: trappola di liquidità, sindrome giapponese: tutte malattie che nascono nell’Europa dell’euro ordoliberista. C’è di più, tuttavia. La finanza si incontra con nuove tecnologie che cent’anni fa non avevamo previsto. Schumpeter parlava di distruzione creatrice: nuove tecnologie, nuove imprese avrebbero distrutto le tecnologie e le imprese incapaci di adattarsi ai nuovi cambiamenti, e dalla crisi si sarebbe creato nuovo plusvalore generato dalla espropriazione del pluslavoro attraverso la riproduzione allargata del meccanismo del capitalismo. Si distruggeva ma si creava. E non solo variando i tassi di interesse, come aveva in mente Keynes, ma facendo circolare merce contro merce come aveva in mente Piero Sraffa, nel suo Produzione di merci per mezzi di merci, che rimane il più bel libro di economia del Novecento. Ora le cose sembrano cambiare. Perché il nuovo ciclo Kondratieff che si avvicina come uno tsunami ha talune caratteristiche prima sconosciute. Pone all’odine del giorno la creazione diffusa di sistemi naturalmente complessi e stratificati quanto a tecnologie di intelligenze artificiali che producono a loro volta intelligenze. È come se si elevasse l’ITC all’ennesima potenza. Le stampanti 3D, con la meccanica per diffusione e non per estrusione che ne deriva grazie all’uso del laser, sono solo l’inizio. Il seguito saranno i robot isomorfi, omeostatici tanto con il corpo umano quanto con il mutare delle macchine e dell’ambiente in cui sono immersi.

Tutto questo è avvenuto in Europa grazie alla politica economico-monetaria dell’Ulivo che ha disarmato le menti e nel mentre ha armato nuove classi economico-politiche cosmopolitem(i Padoa Schioppa ne sono l’ esempio più sconcertante, a cominciare dai Ciampi e dai Draghi e per finire con i Monti costruiti dai quotidiani e dai poteri situazionali di fatto filo teutonici e anti USA,che già Gramsci aveva ben descritto, seguendo Machiavelli e parlando del “cosmopolitismo” ossia del servilismo internazionale degli intellettuali italiani. Immaginiamoci che cosa accade quando al posto di intellettuali ci troviamo dinanzi ragionieri del mondo affascinati dal mito umiliante che narra che gli italiani nulla san far da sé e hanno quindi bisogno per bene agire di choc esterni: l’ordoliberalismus teutonico appunto: mito che in qualsivoglia altra nazione farebbe sfidare a duello colui che accusa il suo interlocutore di sostenere tale tesi.

Si dovrà fare la storia dell’Ulivo che ne affronti la teoria economica prevalente. I testi di Lodovico Festa (anche l’ ultimo apparso su “Studi cattolici” recentissimamente) offrono di già una eccellente premessa.  Ma certamente la politica monetaria di quegli anni va inserita nella specificità della vicenda monetaria italiana che è sempre stata -come sappiamo- determinata da una oscillazione e da un intreccio continuo tra fiscal dominance e foreign dominance.

Sgombriamo subito il campo dal presupposto ipostatizzato mitologicamente che il problema centrale sia quello dell’indipendenza delle banche centrali. L’indipendenza delle banche centrali dal Tesoro (per dipendere da chi? se non dalle burocrazie o dalle euroburocrazie spartite in basi a criteri di potenza nazionale) non incide sui temi della foreign dominance come nei consolidati manuali Cencelli politici, e nel caso dell’Ulivo: non è determinante.

Ciò che è e fu determinante a partire dai tempi dell’Ulivo (sino a oggi) è il fatto che l’indipendenza delle banche centrali europee dell’eurozona e quindi dell’Italia, fu lo strumento più idoneo allorché si ritenne di potere e volere fare la volontà della nazione accettando, anzi, invocando, il dominio estero sulle nostre scelte di politica monetaria ed economica non in una condizione di condivisione ma, invece, di crescente sottrazione di sovranità.

La mia tesi è che l’ Ulivo ha rappresentato l’acme della foreign dominance e l’ha reso pressoché irreversibile – almeno nel breve periodo – con l’ entrata nell’euro e quindi con la definitiva perdita della sovranità monetaria. Ciò che è stata una delle fasi della foreign dominace, ossia l’egemonia tedesca sul sistema economico e su quello monetario in primis italiano grazie all’Europa a dominazione germanica, è ormai divenuta una delle caratteristiche della stessa nazione italiana.

Il nesso nazione-internazionalizzazione ha avuto una torsione e stabilizzazione definitiva, se l’Europa non muterà volto, ossia non si riscriverà il Trattato di Maastricht e non cadranno tutti i suoi presupposti. Essi hanno condannata alla decadenza l’Italia, come fu nella crisi del Seicento. I mezzi furono diversi, gli esiti saranno e già sono assai simili: de-industrializzazione, depauperamento del capitale umano con la sua emigrazione da un lato e la sua emasculazione emotiva dall’altro.

Come è noto, quando parliamo di fiscal dominance intendiamo il ruolo determinante del Tesoro nella creazione monetaria. Determinare la quantità di moneta e dei tassi d’interesse è un compito che rimane nelle mani della politica e delle istituzioni finanziarie: oppongono il principio di gerarchia a quello di mercato e allocano le risorse in questo sistematica prevalenza. In questo senso il ruolo del mercato è subalterno e sottoposto al controllo politico anche in un contesto internazionale che può renderlo difficile Ma questa è stata fondamentalmente la condizione in cui l’ Italia si è trovata a operare per la sua collocazione nella divisione internazionale del lavoro durante tutta la sua storia sino ai primi anni novanta del Novecento Proprio gli anni in cui inizia l’ esperienza dell’Ulivo.

Naturalmente questa storia è stata contrassegnata da una diversità della foreign dominance anche in condizioni ben precedenti l’Ulivo e che ho richiamato precedentemente. Si possono scandire storicamente dei tempi ben precisi in cui tale foreign dominance assume colori diversi, dai tempi Camillo Cavour passando per il predominio inglese e francese e poi quello tedesco che fu decisivo per la creazione del sistema bancario italiano per inverare poi durante il fascismo paradossalmente il predomino nord americano con un ruolo decisivo esercitato dalla banca Morgan e dal suo rappresentante in Italia.

Tutto ciò continuò nel secondo dopoguerra sino all’ abbandono della politica di distacco da ogni ipotesi di sistema dei cambi fissi ben rappresentata dalla posizione di Paolo Baffi in merito alla non adesione allo SME per la ragione che il nostro sistema produttivo non avrebbe potuto resistere neppure a un’ anticipazione dei cambi fissi: figuriamoci a una moneta unica. L’adesione ci fu e dopo il crollo dell’URSS ci fu l’unificazione tedesca e la creazione dell’euro e quindi l’inveramento assoluto della foreign dominance che ora ci distrugge, con tutta l’Europa del Sud.

Il paradosso vero di tutta la vicenda è quello per cui i protagonisti della vicenda, i più filo euro e quindi i più responsabili dell’ordoliberalismus dilagante, furono le forze socialiste e cristiano sociali europee. Da questo punto di vista la creazione dell’ euro e l’adesione entusiasta di tutto l’ Ulivo alla politica ordoliberista è stata il trionfo della considerazione teorica che è possibile dedurre in casi di scelte monetarie assunte in questo caso non da singole nazioni ma da una burocrazia eurocratica dominate sui parlamenti nazionali che teneva e tiene sotto il suo controllo le nazioni. Ossia la considerazione che in presenza di creazione monetaria decisa dal mercato e quindi endogena, tali decisioni non sono mai libere, ma assunte nel contesto dell’equilibro di potenza internazionale che quei mercati costituisce.

Nel caso della BCE il paradosso è bellissimo e strabiliante: il Trattato di Maastricht affida alla BCE la scelta del regime di cambio, per esempio, mentre in effetti tutte le variabili che interagiscono nella circolazione monetaria internazionale sono determinate da sovrastrutture che superano le stesse prerogative sia dei governi nazionali sia della BCE: WTO, cross border currency e soprattutto, oggi in primis, derivati e tutti gli strumenti della finanza collateralizzata.

Il compito della BCE in effetti e lo dimostrano anche le politiche controverse come il quantatitive easing è stata ed è quella di ricercare di condizionare la creazione endogena di moneta ( e quindi dei mercati mondiali) indicando ripetutamente in quale modo si ritiene più opportuno affrontarla politicamente.

Ma la spaccatura dell’ Europa tra nazioni dominanti tedesco-vassallatiche da un alto e potenza francese emasculata dall’altro, ha provocato il collasso del sistema che pare abbandonato a se stesso, come dimostrano le ricorrenti crisi dell’euro sino a giungere alla crisi politica della minaccia della fuoriuscita dall’UE dell’unica grande potenza non dell’aerea euro, ossia il Regno Unito.

Dinanzi a tutto ciò l’ Ulivo non h mai saputo né comprendere né reagire. Anzi ha applaudito ed è salito sul carro dei distruttori dell’economia e della società europea, culturalmente e antropologicamente intesa. Sconcertante poi la politica comunista Basta leggere i discorsi di Giorgio Napolitano: ai tempi di Paolo Baffi, il quale come noto, da Governatore della Banca d’ Italia, era schierato contro lo SME e non seguiva le indicazioni del potere situazionale dominante. In seguito giungemmo ai tempi di Guido Carli (che è ancora la figura enigmatica di tutta la vicenda), che aderì all’euro seguendo la vulgata dello choc esterno necessario e inderogabile, tutti sorprendendo.

Giorgio Napolitano e con Lui i comunisti nella stragrande maggioranza, seguirono la “nuova” Banca d’Italia come i ciechi del famoso quadro metaforico: perplessi e infine europeisti ordoliberisti entusiasti e come tale premiati dai poteri situazionali di fatto allora dominati. Solo Luciano Barca spicca e spiccherà nella riflessione storiografica per la Sua intelligente e indipendente visone in continuità con l’ ispirazione di quella grande figura scientifica, umana, civile, che fu Paolo Baffi.

Dei socialisti è inutile dire alcunché perché si posero nella scia di Tony Blair, il vero distruttore del socialismo europeo, scambiando innovazione e modernità con subalternità alla mitologia capitalistico-finanziaria che dominava il mondo. È un segno positivo dei tempi che l’ attuale gruppo dirigente inglese laburista si sia deciso a fare i conti con quella (e questa ) sciagurata epoca. Ma dovremmo ora far storiografia e sociologia, insieme, di viltà personali e di battaglia delle idee, dove, come sempre, la moneta cattiva scaccia quella buona.

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