La False Flag della tutela del consumatore tra ordoliberismo e TTIP

1. Lo spunto per ri-attualizzare la questione, che troverete approfondita ne “La Costituzione nella palude”, lo fornisce questo recente commento di “Stopmonetaunica“:
“Se ho capito bene, quello che lei definisce consumismo senza senso è lo spostamento ordoliberista dai diritti del lavoro ai diritti del consumatore considerato come unico Dio. Se è questa la definizione che ne dà sono perfettamente d’accordo; è chiaro che i due diritti si trovano sovente in conflitto; banalmente: il consumatore vuole pagare di meno una merce, il lavoratore vuole essere pagato di più; la deflazione salariale adesso fa sì che sia anche una scelta obbligata da parte del consumatore il pagare meno le merci e nel contempo chiedere tutte le garanzie che queste merci siano prodotte con standard qualitativi alti; è quindi un circolo vizioso, un feedback negativo, che porta alla catastrofe sociale…”
2. Due piccole precisazioni: “consumismo senza senso” è una (felice) definizione non mia, ma di Rawls.
La “catastrofe sociale”, in realtà, dipende da quale osservatore di consideri. Un neo-liberista, cioè in particolare un ordoliberista, vedrebbe tale schema come un virtuoso ripristino non solo del magico sistema dei prezzi, ma anche delle indispensabili gerarchie (di fatto), che devono governare la società come “Legge” superiore alla “legislazione” degli “inutili” parlamenti (quando non siano espressione del sondaggismo controllato dagli “operatori economici razionali”).
 
Detto questo, il commento sintetizza correttamente il meccanismo già illustrato qui.
Ma vale la pena peraltro di sviluppare ulteriormente l’argomento
Il motivo è che, quando l’ordoliberismo è culturalmente radicato, come in €uropa, e in particolare in Germania, dove tutela del consumatore e ambientalismo decrescista sono di casa, le cose vanno poi così, quando si tratta di opporsi al TTIP…per le ragioni sbagliate (anche mettendo la questione “lavoro” nel mucchio delle altre):
Berlino, 250mila persone in corteo contro il Ttip. Paura per ogm, qualità della tutela ambientale e del lavoro
BERLINO
3. Ma diciamo sbagliate non in sè (nessuno, giustamente, vuole alimenti ad effetti dannosi per ecosistema e fisiologia umana), quanto perchè, presi da un dilagante condizionamento mediatico-culturale, si combatte l’effetto: cioè, il connaturale abbassamento degli standards di tutela dell’interesse pubblico in situazione di intensificato  liberoscambismo, essendo la teoria dei vantaggi comparati (cioè la giustificazione del free-trade) tanto più valida quanto più è limitato il ruolo dello Stato, possibilmente “minimo”.
Dunque, ragioni sbagliate perchè, opponendosi esclusivamente in base ad esse, si impedisce all’opinione di massa di scorgere la cause e quindi la creazione di una resistenza al TTIP realmente capace di segnalare, alla politica €uropea, il temuto costo di un ampio dissenso (elettorale) che verta sulla “vera posta in gioco” con il TTIP. Vale a dire, i rimasugli dello Stato sociale (sopravvissuti all’euro e alle sue esigenze di conservazione ad ogni costo) e dei servizi di pubblico interesse essenziale non privatizzati, ma da privatizzare in accelerazione.

4. Ecco dunque una espansa illustrazione di come agisce (sull’assetto socio-economico e istituzionale), l’enfasi monopolizzatrice della tutela del consumatore.

La premessa empirica è certo quella già sopra detta: il consumatore ha interesse a pagare meno e a ricevere un bene di effettiva qualità (migliore di “prima”, migliore di quella promessa da una diversa impresa del settore di mercato, comunque di qualità effettivamente corrispondente a quella “promossa” sul mercato). L’impresa ha interesse ad abbassare i costi per potersi garantire la quota di mercato al prezzo più basso offribile e/o con l’esclusiva di certe qualità distintive.
Il modo più diretto e logico di realizzare ciò è l’abbassamento dei costi: il più “facile” e consistente da abbattere è quello del lavoro. Ovviamente, “facile” a date certe condizioni istituzionali e politiche: che sono ben fornite dall’applicazione dei trattati europei, come dovremmo ormai ben sapere. Va peraltro notato che, in pratica, l’incidenza dei costi del management è non meno insidiosa, sulla formazione dei prezzi, perchè si è conquistata una rigidità notevole e una varietà di forme di compenso (diretto o indiretto) senza precedenti; o meglio si è guadagnata, oggi più che mai, un’elasticità esclusivamente verso l’alto.
5. Notare: si tratta della stessa elasticità unidirezionale che viene considerata imperdonabile nel settore pubblico. E viene propugnata come imperdonabile proprio dagli stessi protagonisti di questa escalation dei compensi nel “privato”.
Si tratta di una lotta che vede dunque prevalere una “casta”, molto privata, a scapito del valore condiviso dell’interesse collettivo realizzato da ogni struttura pubblica: funzionale a questa prevalenza, ormai conclamata, è la questione della corruzione, invariabilmente proposta come fatto del solo corrotto, dimenticando la categoria del corruttore…privato. Ma questo è un altro versante del discorso, che merita approfondimento in altra apposita sede).
Dunque, questa rigidità (verso il basso) dei propri enormi compensi, la casta degli executives se l’è conquistata proprio per il “merito” della riduzione dei costi e della connessa garanzia dei profitti, estesa agli azionisti di controllo, e quindi a scapito del lavoro.
Questo schema, che muove dall’idea salvifica dell’interesse del consumatore, è dunque un’autogaranzia dei compensi al management di vertice: il paradigma “mercato-concorrenza su prezzo/”qualità distintive”-consumatore” è comunque premiante in modo selettivo verso il basso, cioè che riduce il “premio” via via che si scende nel livello dell’apporto lavorativo, e quindi in modo regressivo rispetto alla “forza lavoro”.
6. Ciò che più importa è che un’apparente attenzione verso la “massa” (dei consumatori), determina, sul piano degli interessi economici prevalenti, la coincidenza della posizione degli azionisti di controllo con la tendenza degli executives ad accrescere con qualunque mezzo i propri compensi: in pratica, nei fatti, il sistema viene realizzato attraverso le periodiche offensive di tagli del personale, (anche mediante “esternalizzazione” con riassunzione dei dipendenti presso imprese esterne create ad hoc, con contratti di lavoro meno costosi, o mediante la intensa precarizzazione contrattuale dei dipendenti stessi, talora licenziati e riassunti con formule di part-time e collaborazione autonoma etc.).
Tutte queste “tecniche” di gestione del costo del lavoro sono chiamate pomposamente “riorganizzazione“.
Dunque, l’enfasi sulla figura del consumatore (spostato strategicamente sul rapporto qualità/prezzo), crea la (nei fatti forzata) coincidenza tra la tutela del consumatore stesso, considerato ipocritamente come l’appartenente ad una categoria indifferenziata, con il prevalente interesse del management e della proprietà finanziaria.
7. Ma avuto riguardo alla caratteristica del consumatore di costituire una “massa”, si impone di distinguere ciò che è invece dissimulato in questo schema: le differenti posizioni economiche, cioè reddituali e di capacità di spesa, in cui si suddividono di fatto, inevitabilmente, i consumatori, appartenenti alla massa indistinta di cui si propugna la indifferenziata tutela.
I consumatori non sono affatto indifferenziati: proprio per effetto della condizione simultanea di appartenenti alla forza lavoro, sottoposta al sistema della “riorganizzazione” del personale, perdita di potere d’acquisto e perdita del posto di lavoro, colpiscono la gran parte dei consumatori.
In pratica, l’effetto ultimo e “massificato”, è di relegare la parte debole del contratto di lavoro alla condizione diutente, naturalmente anch’esso debole, del credito al consumo, governato dalle condizioni generali di contratto imposte dall’onnipossente sistema finanziario, ovvero alla condizione di morte sociale di “non-consumatore“, in quanto disoccupato o working-poor.
8. La tutela del consumatore finisce così per coprire il danno che, alla principale componente di tale massa, i lavoratori, viene inflitto in nome del “mercato”: per conquistare il mercato, per rimanere sul mercato, nella competizione di volta in volta considerata in un certo settore, la forza lavoro diviene per definizione sacrificabile, in un’illusoria contrapposizione tra la forza lavoro di “settore”, o di una singola impresa, e la massa volutamente indifferenziata dei consumatori.
Ma la massa è, nei numeri della collettività sociale, percentualmente composta in modo maggioritario dalla stessa forza lavoro; e tale componente, sociologicamente, include anche il lavoro autonomo, in forme nuove e antiche, nella sua parte che non può volgere a proprio vantaggio il potere di fissazione dei prezzi.
Questi, infatti, sono in concreto stabiliti dagli operatori che hanno “potere di mercato“, cioè in posizione di oligopolio e/o monopolio, spesso artificiosamente distinti ma nella realtà a stento distinguibili (nel comportamento sul mercato e sul controllo dei costi).
9. L’evidente conseguenza di questa imposizione ideologica e, nell’ambito della costruzione europea, anche normativa, è che la tutela del consumatore, diviene una fortissima spinta alla giustificazione (dissimulata) del tipo di mercato del lavoro che consente l’operazione di bandiera, continua, di tutela del consumatore attraverso la (presunta e illimitata) competizione sui prezzi: quel tipo di mercato del lavoro-merce, o lavoro-costo, che consente di rifissare i prezzi, e rimodulare l’offerta di beni e servizi, essenzialmente in funzione riduttiva della quantità (disoccupazione+precarizzazione) e della remunerazione (salari reali) del fattore lavoro.
10. Sul piano morale, e politico (nel senso di ideologico generale), ciò consente la settorializzazione e la frammentazione della tutela del lavoratore, che diviene sacrificabile alla luce del “generico” interesse superiore del consumatore, nascondendo gli effetti reali del mercato del lavoro che così viene affermato come scelta eticamente ineludibile (There is no alternative: TINA).
Le ragioni della classe dirigente economica privata, assurgono così a priorità incontestabile proprio con il coinvolgimento di chi ne viene danneggiato nei suoi interessi, cioè i consumatori nella loro prevalente realtà sociologica: solo che tale interesse del vertice sociale privato scompare – in una frammentazione settoriale che indebolisce il lavoro fino a renderlo irrilevante-, nella stessa percezione dell’opinione di massa. E questo, grazie alla categoria artificiosa del mercato in “libera concorrenza” (che nasconde gli oligopoli transnazionali) e a quella del consumatore come suo (artificioso) principale beneficiario.

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